Ora, a tanti anni di distanza, mi vien da sorridere, ripensando alla nostra quasi totale ignoranza sulla storia dell'università e della biblioteca. Magari sapevamo tutto sulle servitù prediali - servitus altius non tollendi, servitus pecoris pascendi - ma del nostro ateneo sapevamo soltanto che era uno dei più antichi d'Europa e che aveva avuto fra i suoi allievi Nicolò Copernico.
Con la Biblioteca Ariostea, allora limitata al primo piano del palazzo, avevamo anche meno confidenza. La sua Gran Sala di lettura, severa e un po' cupa, con le pareti tappezzate di libri antichi e tutti quei ritratti di cardinali alle pareti, ci metteva soggezione. E anche qui, quanto a storia, ignoranza assoluta. Ci limitavamo a sapere che in altre sale, dove peraltro non eravamo mai entrati, c'era la tomba di Ludovico Ariosto e - particolare un po' sconcertante - il cuore, debitamente conservato, del poeta Vincenzo Monti.
Io, però, a differenza dei miei compagni, un legame, sia pure indiretto, con l'Ariostea ce l'avevo. Dipendeva dal fatto che il suo mitico direttore, colui che ne aveva retto le sorti per quarantadue anni, contribuendo come pochi ad arricchirne il patrimonio librario, veniva di tanto in tanto a cena a casa nostra. Piccolo di statura, uno sguardo fra l'ingenuo e il malizioso che lampeggiava in una rete di rughe sottili, Giuseppe Agnelli a quei tempi aveva già superato gli ottant'anni.
Nostro padre lo stimava e gli voleva bene per la sua vasta cultura, per lo straordinario impegno che dedicava a tutti i problemi di Ferrara e anche per il garbo con cui, di tanto in tanto, inseriva nel suo italiano forbito fulminanti battute in francese. I miei fratelli e io, invece, eravamo attratti dal suo abbigliamento: bombetta, bastone con pomo d'avorio, colletto alto rigidamente inamidato, giacca nera con l'immancabile gardenia all'occhiello, panciotto attraversato dalla grossa catena d'oro dell'orologio e da un'altra, sottilissima, pure d'oro, da cui pendeva un cornetto portafortuna in corallo bianco.
Bene, la figura familiare di questo straordinario personaggio mi torna in mente, di tanto in tanto, in certe particolari occasioni. E mi è riemersa davanti agli occhi poco tempo fa, proprio nel momento in cui (dopo mezzo secolo) mi stavo avviando verso Palazzo Paradiso, in visita d'auguri per il duecentocinquantesimo compleanno della biblioteca, pellegrinaggio riparatore della mia lunga trascuratezza.
Ma è stata un'apparizione di breve durata. Al momento stesso in cui oltrepasso il monumentale ingresso, l'immagine simbolo di Giuseppe Agnelli scompare, dissolta, sopraffatta da una nuova luce. Di fronte a me, il nudo cortile cinquecentesco dove davamo quattro calci al pallone, si è trasformato in uno spazio-studio perfettamente attrezzato con ombrelloni, sedie, tavolini, dove alcune decine di persone, prevalentemente giovani, sfogliano libri, prendono appunti, parlottano con discrezione. Diversi jeans, molte scarpe da ginnastica, quasi un college americano.
Che sia questo il vero simbolo della biblioteca rimodernata? Quasi a sottolineare l'ipotesi, poco dopo, una giovane e gentile funzionaria tiene a elencarmi i cambiamenti dell'Ariostea dopo la grande ristrutturazione degli anni Novanta: nuovi uffici, nuove sale di lettura, nuovi depositi a scaffali semoventi, nuovi cataloghi computerizzati, stazione internet, microfilm, impianto per il controllo della temperatura e dell'umidità a conservazione dei volumi e dei manoscritti più preziosi, restauro degli affreschi e degli incunaboli.
Dopo tanto lavoro, ormai, l'Ariostea, con i suoi trecentosettantamila volumi, i tremila antichi manoscritti, può essere considerata una grande biblioteca europea. Unico neo della ristrutturazione: alla lunga catena manca l'ultimo anello: il comune di Ferrara, imprenditore dell'opera, per mancanza di fondi è stato costretto a sospendere il restauro a un passo dal traguardo: ne è rimasta esclusa la Gran Sala di lettura, quella dei cardinali, che, in attesa della ripresa dei lavori prevista entro la fine dell'anno, resta temporaneamente chiusa, inaccessibile al pubblico.
A questo punto, con ben chiari in mente i punti di riferimento, posso riprendere il mio pellegrinaggio cominciando, sempre, al pianterreno, da quella che una volta era la grande sala d'aspetto, o meglio lo "stanzone dei bidelli", dove, agli orari degli esami e agli avvisi del Rettorato, si alternavano frammenti di antichi affreschi anneriti dal tempo. Irriconoscibile! Ora dedicata alla letteratura per ragazzi, contiene migliaia di libri per giovanissimi fino ai quattordici anni: gli affreschi, accuratamente restaurati, risultano nitidi. Tanto che lo stanzone dei bidelli ha potuto riprendere l'antico nome di Sala dell'Astrologo.
E le piccole aule nell'ala sinistra dell'edificio dove ascoltavamo le lezioni di diritto? Sgombrati banchi e cattedre, abbattute pareti divisorie, formano la catena di sale a "scaffale aperto" con ben cinquantamila volumi che, a differenza di una volta, possono essere prelevati senza compilare la solita vecchia scheda. A lettura ultimata, debbono essere lasciati in grandi contenitori da dove vengono raccolti e riposti dagli addetti alla biblioteca. Bene, anche qui salta agli occhi il complesso degli affreschi monocolori - sul verde - completamente restaurati.
Nell'affrontare lo scalone settecentesco del Foschini, che porta al primo piano, le regole dei pellegrinaggi mi impongono qualche secondo di sosta a naso in aria sotto la lapide che ricorda: "Nicolò Copernico/ astronomo matematico filosofo/ medico giurista/ nello studio di Ferrara il 31 maggio 1503/ conseguì la laurea IN diritto canonico." Mezzo secolo fa neppure mi ero posto la domanda perché mai lui, ideatore della rivoluzionaria teoria eliocentrica tanto avversata dalla Chiesa, avesse scelto di laurearsi in diritto canonico. Soltanto molti anni più tardi dovevo apprendere che Copernico, per quanto convintissimo che la Chiesa avesse torto in fatto di astronomia, era molto religioso; qualche anno dopo la sua laurea ferrarese, prese gli ordini sacri a Heidelberg, in Germania.
Meditando sul dramma psicologico che dovette attraversare il grande polacco per il contrasto tra le sue teorie e i dettami della Chiesa, arrivo al primo piano dove, davanti al portone irrimediabilmente chiuso della Grande Sala di Lettura, rivivo per analogia un altro dramma, forse anche più tragico: quello dell'amico Giorgio Bassani, il giorno in cui, per le leggi razziali, gli fu impedito l'accesso all'Ariostea. Che frequentava con tanta passione.
Mi distrae e mi rasserena il passaggio alla parte più riservata e più nota della biblioteca, quella dove le sale sfarzose si alternano a sale più sobrie, a temperatura e umidità regolata, dove si conservano manoscritti e incunaboli. Ce n'è una in cui mi soffermo commosso: quella intitolata a Lanfranco Caretti, caro amico dei tempi universitari, scomparso pochi anni fa. È adibita alla consultazione dei manoscritti rari e per questo penso l'abbiano dedicata a lui, gran maestro di analisi storico-letterarie, soprattutto sull'opera di Torquato Tasso.
Se ne avessi il tempo, potrei farmi portare le nove lettere, qui gelosamente conservate, scritte dal Tasso nel carcere ferrarese di Sant'Anna, dove lui, beniamino di Alfonso d'Este, poeta avvezzo a declamare i suoi versi davanti alle dame della corte estense nei saloni del castello, restò chiuso sette anni per le sue escandescenze di nevrotico.
E magari cercar di capire dalle sue parole e dalla sua calligrafia di che natura fosse quella sua così moderna e così angosciante malattia; oppure la preziosissima Bibbia di Gerolamo Savonarola con ai margini i commenti e le note scritte del grande predicatore ferrarese quando era novizio a Firenze, ben lontano dal pensare che sarebbe finito sul rogo.
Così, a conclusione di un'appassionante catena di immagini e di emozioni, eccomi al traguardo: la Sala Ariosto. Al centro, vi sono ancora le grandi bacheche della mostra su Lucrezia Borgia, ma a una parete, alta su tutto, domina la tomba dell'Ariosto con al centro, in bella evidenza, il busto marmoreo del poeta. Mi fermo a osservarlo come se fossi davanti a un altare: un santo dell'arte e della fantasia davanti al quale, invece di inginocchiarsi e pregare sottovoce, verrebbe fatto di declamare con entusiasmo qualcuna delle sue celebri ottave.
Giusto, giustissimo - vado pensando - che il simbolo della biblioteca sia lui; ma quando, passata l'emozione, sto per uscire dalla sala, mi accorgo che dal lato opposto, in un angolo, c'è un computer controllato da una giovane impiegata.
Ora, di computer, all'inizio della mia visita, giù negli uffici, ne ho visti molti, senza mai soffermarvi lo sguardo; ma questo video luminescente, piazzato fra marmi, affreschi e bacheche, ha un risalto e una forza particolari, pretende attenzione, quasi a gridare il suo diritto a essere inserito fra i simboli della moderna Ariostea. E forse anche la ragazza esprime in silenzio la stessa aspirazione.
Così, mentre, ridisceso a pianterreno, indugio sulla soglia della Sala Giuseppe Agnelli, diventata ormai, per conferenze e convegni, il maggior centro culturale della città, concludo sorridendo che computer e ragazza hanno ragione. A rappresentare l'Ariostea anni Duemila, oltre il grande Lodovico, concorrono i personaggi, gli oggetti, gli ambienti più diversi: il piccolo grande direttore dalla gardenia all'occhiello e i ragazzi in jeans e scarpe da ginnastica, Nicolò Copernico e Giorgio Bassani, gli incunaboli e i computer, la Bibbia del Savonarola e le raccolte di vecchi quotidiani chiusi da tempo, come la "Gazzetta ferrarese" e il "Corriere padano". Ah, dimenticavo: c'è anche, racchiuso in un dignitoso, ma anonimo mobiletto di legno massiccio, il patetico cuore di Vincenzo Monti.
All'uscita, dopo un ultimo augurio di "buon compleanno!" all'Ariostea, mentre mi avvio verso via Mazzini, non saprei dire se questo pellegrinaggio sia stato sufficiente a farmi perdonare la mia lunga assenza da Palazzo Paradiso e le mie tante lacune; so di sicuro che, per quanto breve, è servito a farmi intuire lo spirito di questa straordinaria biblioteca, memoria storica di Ferrara. E non soltanto di Ferrara.