Francesco Viviani: professore mitico

Scritto da  Gaetano Tumiati

La facciata dell'ex Liceo Ariosto.La figura imponente di un insegnante che ha saputo impartire una straordinaria lezione di rettitudine morale.

Ottobre 1934: due mesi prima Mussolini, allarmato per l'assassinio del cancelliere Dollfus, aveva spostato alcune divisioni al confine del Brennero, per difendere l'Austria dalla minaccia nazista; la nostra Nazionale di calcio aveva appena vinto il suo primo campionato del mondo; a Ferrara, nel Palazzo dei Diamanti, si era conclusa da poco la Mostra del Rinascimento ferrarese, sempre a Ferrara, Pietro Sitta era rettore della Università ed Emilo Teglio preside del Regio Liceo classico Lodovico Ariosto di via Borgoleoni.


Fu appunto nella grande aula ad anfiteatro dell'Ariosto che quell'ottobre i trentaquattro studenti ammessi alla prima liceale - io tra quelli - ritti sull'attenti videro per la prima volta il "terribile" professor Viviani. Docente di latino e di greco, in soli quattro anni di permanenza a Ferrara era diventato una figura mitica per la sua cultura, la sua eccezionale severità e per la fama di antifascismo dovuta al fatto che - caso rarissimo tra gli insegnanti - non aveva mai preso la tessera del partito.

Aveva allora quarantatre anni: una figura possente che dava l'impressione di contenere a stento un'energia sempre sul punto di esplodere; una testa massiccia, statuaria, un'ampia fronte sormontata da pochi capelli. Salì aitante i due gradini della cattedra e soltanto dopo qualche secondo ci fece sedere con un perentorio gesto della mano. Nel silenzio più assoluto notammo con meraviglia che aveva con sé tre o quattro quotidiani, tra i quali uno francese: l'Echo de Paris, se ben ricordo.

Che tenesse a mantenere un netto distacco lo notammo dal fatto che nel rivolgerci le prime domande non ci dava del "tu", ma del "lei". Aveva una voce profonda che di tanto in tanto si faceva più tenue e sottile, con lievi intonazioni sarcastiche, come quando non sembrandogli sufficiente il "lei", ci apostrofava addirittura con un ampolloso "Ella", che comportava anche per i maschi una concordanza femminile: «Ella dovrebbe farmi la cortesia...»; «Ella è proprio sicura di quello che ha detto?».

Talora, ironizzando, si divertiva a volgere i nostri nomi in latino: Calzolari diventava Calzolarius, Cavallari Cavallarius, Galloni Gallonius e così via. «Calzolarius, Ella è preparata?» chiedeva a Franco Calzolari, futuro principe del Foro ferrarese. Dal suo posto Calzolari, sedici anni ma uno e ottantacinque di statura, si stringeva nelle spalle cercando di farsi più piccolo. «Dunque, Calzolarius, è preparata o no sull'orazione di Demostene?» Calzolari contraeva il viso in una smorfia come a significare: «Insomma... abbastanza... così così...»

Un attimo di silenzio, poi dalla cattedra giungeva la tremenda alternativa: «Decida lei, Calzolarius: preferisce essere interrogato o restare al suo posto con quattro? Perché, se preferisse rinunciare, sul registro le metterei quattro». Calzolari, perso per  perso, tentava la sorte e affrontava l'interrogazione; ma non era facile, per lui come per gli altri, ottenere di più del quattro concesso a chi sceglieva il silenzio.
Spesso, per farci capire che non dovevamo mai concederci pause di rilassatezza, interrogava lo stesso studente per tre o quattro giorni di fila. Una volta arrivò a interrogare uno di noi nove volte di seguito: «Così nessuno di Lor Signori potrà farsi più illusioni», commentò alla fine.

 


Il professor Viviani a Ferrara.Una severità tanto esasperata può trovare giustificazione, più che nel costume dell'epoca, nell'intransigenza con cui Francesco Viviani teneva fede ai suoi ideali e nel suo straordinario impegno professionale. Esigeva dagli studenti una perfetta conoscenza del latino e del greco non perché incamerassero meccanicamente aride nozioni, ma perché si muovessero con assoluta disinvoltura tra i testi classici e ne comprendessero a fondo significati e messaggi.  Dalla lettura di Demostene, di Orazio, di Tacito traeva spunto per stigmatizzare indirettamente la dittatura e per esaltare il concetto di libertà. Quando ci leggeva gli Annales in latino e arrivava al punto in cui Tacito, dopo aver brevemente enumerato le opere meritorie di Augusto, passa a sottolinearne i difetti e le colpe - Dicebat contra... - batteva il pugno sulla cattedra, la sua voce cresceva di volume, diventava tonante, faceva tremare i vetri dei finestroni.

Altrettanto succedeva con il suo poeta preferito, Orazio, soprattutto quando arrivava al famoso Integer vitae scelerisque purus - chi ha condotto una vita senza macchia, non ha paura di nulla e di nessuno - si fractus dilabatur orbis, impavidum ferient ruinae - anche se la terra si disintegrasse, le rovine lo travolgerebbero impavido.

Come si illuminava il professore nel declamare quelle parole! Braccia aperte, fronte alta, sembrava sul punto di affrontare il crollo, se non dell'orbe intero, perlomeno del vecchio ex convento, sede del liceo. Voleva che comprendessimo e amassimo non soltanto i poeti latini e greci, ma tutta la classicità, radice prima della nostra cultura; fonte, amava ripetere, cui dovevamo attingere per comprendere i grandi concetti di libertà, di giustizia, di patria.

 


L'ultima, tragica immagine di Francesco Viviani a Buchenwald.Spesso capitava che, spinto dall'entusiasmo, esorbitasse dal suo settore e invadesse quelli di suoi colleghi, dedicando un'ora intera, invece che al latino e al greco, alla filosofia, alla storia, all'italiano. Ricordo il giorno in cui dedicò tutta una lezione a La ginestra di Giacomo Leopardi, declamando con enfasi quei versi e illustrando come meglio non si poteva l'amara grandezza della filosofia leopardiana. Noi, di quella classe, non potemmo continuare ad apprezzarlo per tutta la durata del liceo. Alla fine del secondo anno, infatti, colpito da uno dei tanti provvedimenti con cui il Ministero cercava di piegare la sua opposizione, fu trasferito da Ferrara a Sciacca, in Sicilia. Da allora, sopraffatti dal turbine degli avvenimenti e poi dalla guerra, non sapemmo più nulla di lui. Soltanto al termine del conflitto, di ritorno in Italia, fummo a poco a poco informati della sua febbrile attività politica, della sua partecipazione alla resistenza, della sua tragica fine.
Dirigente del Partito d'Azione clandestino, presidente del CLN di Verona, era stato arrestato il 2 luglio 1944 e quindi deportato in Germania, nel lager di Buchenwald dove era morto il 9 aprile 1945, poco prima della liberazione. La sua ultima immagine, scattata appunto nel lager, ci mostra una specie di scheletro in casacca a strisce che, privo di forze, si abbandona a occhi chiusi sulle spalle di un altro prigioniero.

Da allora alla sua memoria sono stati tributati giustamente molti onori: Verona gli ha intitolato una sua bella piazza; a lui sono stati dedicati saggi e convegni; Virgilio Santato ne ha scritto una documentatissima biografia, Un intellettuale dell'antifascismo.
Quanto a noi, suoi ex allievi - quasi una consorteria - non possiamo che ripetere le parole che un altro suo ex allievo, Giorgio Bassani, gli scrisse alla notizia del trasferimento punitivo a Sciacca: «Mi è grato ora ricordare, in questo momento doloroso, queste Sue elette qualità, e tanto più perché è per esse soprattutto se sono cresciuto ad oggi uomo, nella pienezza dell'anima aperta ad ogni bellezza, ad ogni altezza; uomo, nell'amore sconfinato che porto alla libertà e alla giustizia».