Lezione a braccetto

Scritto da  Gaetano Tumiati

Palazzo Paradiso, la vecchia sede dell'Università.Oggi gli atenei sono sovraffollati. Negli anni Trenta a Ferrara poteva capitare che un professore tenesse lezione a un solo studente, passeggiando per la città.

Ogni volta che, a proposito di Università, si parla di sovraffollamento, di insufficienza di aule, di studenti costretti a fare la fila fuori dalla porta, a me torna in mente, per contrasto, l'Università di Ferrara così come si presentava nei tardi anni Trenta, quando vi studiavo io, iscritto a Legge.

La sede era allora a Palazzo Paradiso, in via Scienze, un antico, imponente edificio di cotto, sormontato da una torretta con un gigantesco orologio. All'interno, oltre il porticato e lo stanzone della Bidelleria con tracce di antichi affreschi, si apriva un ampio cortile pavimentato a ciottoli su cui si affacciavano le aule, piccole ma più che sufficienti a ospitare gli studenti che, nelle lezioni più frequentate, di rado superavano la dozzina.


I banchi erano di legno scurito dal tempo, come le cattedre, alte e imponenti, con due o tre gradini. I professori giovani, come Alberto Trabucchi, titolare di diritto civile, che doveva avere circa venticinque anni, vi salivano agilmente.

Non così il Magnifico Rettore, senatore Pietro Sitta, un vecchio gentiluomo dalla corporatura massiccia e dal pizzetto bianco che, pur dichiarandosi fascista, non aveva certo l'impeto e l'aggressività predicati dal regime. Dai suoi occhi sempre arrossati sgorgavano lacrime che lui, lassù sulla cattedra, mentre parlava di economia, si asciugava di tanto in tanto con il fazzoletto di lino purissimo prelevato dal taschino, come se provasse chissà quale dolore.

Con gli studenti, il Rettore era comprensivo e indulgente, non soltanto agli esami. Lo divertiva, per esempio, il trambusto con cui, durante le vacanze di fine d'anno, gli studenti maschi e femmine, tra mille scherzi, preparavano insieme i pacchi di quella che, senza alcuna ironia, veniva definita la "Befana fascista"; grossi involucri che contenevano generi alimentari destinati ai poveri della città.
Al Rettore non dispiacevano neppure le scherzose partitelle di calcio che gli studenti in attesa della lezione improvvisavano di tanto in tanto sull'acciottolato con dribbling e piroette in cui si distinguevano il futuro ministro delle Finanze, Luigi Preti e, nonostante la sua mole, il futuro notaio Luigi Barbaro.
Giochi e scherzi si interrompevano, invece, o perlomeno si attenuavano, se l'anziano bidello Bernardini - che sapeva alternare bonarietà e autorevolezza - annunciava l'arrivo del Preside di facoltà, professor Leopoldo Tumiati, noto per la sua austera severità.

 

Il gabinetto di anatomia dell'Università di Ferrara.Oltre a questa caratteristica, unanimemente riconosciutagli, il Preside ne aveva anche un'altra che mi riguardava personalmente: quella di essere mio padre. Il che mi costringeva a studiare molto di più degli altri e, soprattutto, peso gravoso per un diciottenne, a essere presente a tutte le lezioni, comprese quelle delle materie facoltative. Capitava così che, in attesa di questo o di quel professore, passassi diverso tempo nello stanzone della Bidelleria in compagnia del bidello Bernardini, con il quale ero entrato in particolare confidenza.

Bernardini era ateo convinto, ma non di quegli atei all'emiliana, sanguigni e gaudenti, che considerano paradiso il lambrusco e la salama da sugo. Al contrario, pallido e magro in volto, aveva un aspetto ascetico e si tormentava al pensiero che tanta parte del mondo avesse ancora fede in un Essere superiore e nell'immortalità dell'anima. Il fatto che io mi dichiarassi "agnostico", da un lato lo confortava per la comune assenza di una precisa fede, dall'altro lo indisponeva e quasi lo rattristava, perché mi rifiutavo di compiere quel piccolo passo che separa l'agnosticismo dall'ateismo.

Per convincermi, voleva che facessi frequenti capatine nella sala di anatomia, nella speranza che quello spettacolo mi convincesse a passare dalla sua parte. Altre volte, sempre con lo stesso intento, preferiva argomentazioni filosofiche sulla inconciliabilità tra la presenza del Male e il concetto di Dio.
In un luminoso pomeriggio di primavera, mentre Bernardini e io stavamo discutendo nella Bidelleria deserta, si affacciò sulla porta il professor Alessandro Visconti, che alle tre e mezza avrebbe dovuto tenere la lezione di storia del diritto. Era un uomo gentilissimo, dai capelli d'argento, che parlava sempre sottovoce con l'accento caratteristico dei nobili milanesi. Abitava a Milano e veniva a Ferrara due volte alla settimana per le lezioni.

 

Il cortile dell'Università.«Sono un po' in ritardo,» disse con la sua erre mouillée, «ma non ho visto nessuno nel cortile. Quanti studenti ci sono, oggi?»
«Pochi,» rispose Bernardini, scuotendo la testa.
«Pochi quanti?»
«Pochi, uno!»
«Ma come mai, Bernardini, come mai?»
«Mah, professore, forse il sole!»
Il professor Visconti non nascose il suo disappunto, ma si riprese subito al pensiero che sarebbe potuto rientrare a Milano con anticipo. Forse avrebbe fatto in tempo a prendere il treno delle cinque.

«Non sono ancora le quattro,» disse, rivolto a me. «Se vuoi, potremmo andare alla stazione insieme. Ti terrò lezione passeggiando.» Uscimmo insieme in via Scienze, attraversammo il centro, arrivammo al Castello. Il professore mi aveva preso sottobraccio e mi parlava di Gaio, un giurista del secondo secolo dopo Cristo, famoso per le sue Istituzioni, come se si trattasse di un suo amico personale. Lungo un viale Cavour inondato di sole, passò a parlarmi di Ulpiano, altro giurista, anch'esso del secondo secolo, ucciso dai pretoriani ostili alle sue leggi. Il viale era affollato: mamme, bambini, fidanzati, vecchietti fermi al sole.

Incontrammo anche un gruppo di miei compagni che avrebbero dovuto essere all'Università, proprio per la lezione del professor Visconti. Vedendoci, cessarono di colpo i loro discorsi chiassosi e, imbarazzati, si fecero leggermente da parte per lasciarci passare. Il professor Visconti non si accorse neppure della loro presenza e continuò a parlarmi fitto fitto di Ulpiano, pregandomi soltanto di affrettare un po' il passo, perché gli sarebbe dispiaciuto perdere il treno delle cinque.