Luogo di fruizione estetica, ma anche segno tangibile della corte, emblema di un potere che ha bisogno di simboli per lanciare la propria ideologia, i giardini estensi assicurano che la pace edenica promossa dai duchi estensi - Ferrara come Paradiso, ovvero giardino - era tale «per studio e cura / di chi al sapere et al potere unita / la voglia avendo, d'argini e di mura / avria sì ancor la sua città munita / che contra tutto il mondo star sicura / potria, senza chiamar di fuori aita.»
Nell'intenzione del Duca, sovrano e dio della bella natura edenica, e nei versi dell'Ariosto, la guerra e la pace si fronteggiano nei simboli di Belvedere, quell'isola sospesa tra utopia e realtà dove la corte in scena si specchia negli amori di Aminta e Silvia e dove l'isoletta, «là presso la cittade», ritualizza il sogno tassiano di un ritorno alla natura contro l'onore che ha corrotto la corte e il mondo e dove la bella età dell'oro può nostalgicamente essere evocata nel ritornello dell'«ei piace, ei lice».Al tramonto di una stirpe e di un potere non basterà più nemmeno il rito propiziatorio della musica delle dame, là nel giardino sospeso tra i merli del castello. Ma il mito del giardino sopravvive come idea mentale del Paradiso alle minacciose rapine della bufera storica e l'onda del contingente, i rottami del mondo impazzito, lambiscono l'ultimo eden concesso alla follia degli uomini: il giardino dei Finzi-Contini. Eppure, «Tigli, olmi, faggi, pioppi, platani, ippocastani, pini, abeti, larici, cedri del Libano, cipressi, querce, lecci e perfino palme ed eucaliptos» non sono un sufficiente riparo ai mostri che nascono dal sonno della ragione.
Evocato dal ricordo del Ninfeo della principessa Marguerite Caetani e dal percorso domestico della via sacra ferrarese, la via dei Piopponi o il corso Ercole I d'Este, l'immaginato giardino di Bassani riafferma quel principio proprio dell'idea edenica di un luogo che è consolazione e memoria, sacrario inviolabile degli affetti, ma anche precario rifugio dalla storia che batte allo scuro portone di Micòl Finzi-Contini.
Un altro giardino, dominato da una magnolia, rinserra i pensieri più segreti, le lacrimae rerum, non più dell'io narrante del Giardino dei Finzi-Contini, ma di un Giorgio Bassani che affida all'albero e al fresco umidore di un giardino segreto il ricordo di un'infanzia e di una intermittenza del cuore.
Sulla scia della memoria, sulla pallida e nebbiosa evocazione di un passato che è insieme ricordo, ma anche tenace volontà di non perdere il senso della realtà edenica, si costruiscono, si curano, si amano i giardini domestici che un portone socchiuso rivela al di là delle severe facciate dei palazzi ferraresi dove, direbbe Montale, il giallo dei limoni provoca una «dolcezza inquieta» o le foglie dell'aspidistra riportano al curioso riguardante le immagini polverose di una placida vita di provincia, immemore, nella sua banalità, dal cambiamento di un decoro conquistato con la discrezione dei riti familiari.
Non ci sono giardini belli, a Ferrara: ci sono giardini-orti dove la memoria s'aggruma e si condensa nel sussulto improvviso di un colore, il bianco di una colonna a cui s'appoggia una pianta di rose, un cespo di lattuga o la tromba d'oro di un fiore di zucchina tra astri e dalie, il verde tenero dell'erba luigia che mitiga e frena la pomposa e gelida presenza di una rosa baccarat, così assurda tra l'universo domestico delle ahimè onnipotenti tagetes o petunie e, peggio ancora, insultanti salvia splendens o tristi begonie.
In questo affettuoso coacervo di colori e profumi non mancano, tuttavia, le tracce del passato glorioso; e sono i meravigliosi cortili che ancora esibiscono nell'architettura dei Rossetti, dei Girolamo da Carpi, i sipari che incorniciano i resti consunti di una vegetazione impoverita e trasandata: da quello dei Diamanti a quello del palazzo di don Giulio d'Este, dal ritmo delle colonne che inquadrano dal palazzo di Renata di Francia i resti del giardino Pareschi, al miracolo, alla perfezione del cortile Naselli-Crispi o all'inquieto geometrismo del giardino murato del palazzo Varano-Dotti.
Dall'umile e arruffato angolo di un cortile del ghetto o dalla pretenziosità di un giardino signorile degradato dal tempo - sia il brutto parco Massari o l'assurdo pasticcio del giardino della palazzina Marfisa - spira la volontà umana di costruire, come direbbe Borckardt, un paradiso negli intervalli dello scacco della storia, sia esso l'umile pianta in un barattolo al sesto piano di un condominio o il giardino, paese d'illusione, che si contrappone alle astuzie della storia. L'uomo sa che il tempo e l'angelo vendicatore distruggeranno il segno del paradiso perduto, ma la sua forza e il suo destino lo spingeranno a ricostruirlo nel ritmo caparbio del cuore.
I giardini, dunque, come memoria, e non solo memoria storica, ma naturale, di una natura che ancora - a Ferrara - sa dialogare con l'architettura e l'urbanistica. Scomparsi i grandi giardini rinascimentali, la Cedrara, la Ragnaia, la Castellina, la Montagna di San Giorgio, il Barchetto del Duca, Belfiore, Belvedere e la Montagnola, - toponimi di una dolcezza discreta, che evocano placidi ritiri e pigri conversari tra la fumea della pianura e l'arsiccia vampata delle calde estati - restano le tracce di una vegetazione che non ha abdicato ai diritti di una campagna che sfuma e si perde nella città senza che le mura la contrastino, anzi, ma la esaltino nella prospettiva dei lontani.
E così, «il bruno, cespuglioso, selvaggio sperone semidiroccato del baluardo quattrocentesco» che sigla l'incontro tra Micòl e l'io narrante del romanzo bassa-niano, oggi, con il suo pennacchio di verde, è la rassicurante presenza delle mura giardino, l'unico - forse - paesaggio giardinesco che la città abbia saputo conservare e restaurare. Un giardino-paesaggio dove la fruizione pubblica che nel secolo scorso ha fatto sparire tanti giardini trasformandoli in lande incolte a cui si osa dare il mai abbastanza vituperato nome di verde pubblico ha saputo conservare la qualità giardinesca.
Ci sono anche a Ferrara i nemici dei giardini che, si badi, non sono solo la prepotente invasione urbanistica o la invasione edilizia. Per fortuna, Ferrara è una città che non ha sofferto e non soffre delle situazioni senza ritorno di tante città italiane sconciate dal furore speculativo; il nemico dei giardini ferraresi è semmai la pretesa di ricreare, senza cultura e senza ricordo, un luogo - il giardino, appunto - attraverso simboli straniati e fuorvianti.
Nemici dei giardini sono i contenitori o ciotole, spesso di cemento, che per fortuna sempre più raramente invadono il centro storico, malinconicamente ripieni di banalissimi fiori estranei al nostro clima e alla nostra flora; sono le rose da siepe che, maltenute, languono nelle aiuole fuori dalla stazione o occhieggiano assetate nei controviali del perduto canale Panfilio, ora viale Cavour.
Piccole cose; brutte, piccole cose che la nostra città non può sopportare proprio in nome di quel ricordo di capitale dell'intelligenza che era il suo vanto e che si tenta nell'oggi degradato di mantenere come cifra di lettura di una città che, giustamente, lo rivendica come speranza per il futuro.
Nemica dei giardini è la mancanza di una scuola di giardinaggio che faccia apprendere anche ai più piccoli che qui, nella dolce pianura emiliana, il tiglio è bello, e non l'abete o la tuja; che le querce, i noccioli, i tigli, i pioppi, i platani, gli ippocastani sono le creature che devono popolare i nostri giardini, e anche che alberi diversi, esotici, forse più carismatici - ah, la bellezza sublime di un cipresso in un giardino toscano - sono meno importanti, meno necessari, meno colti degli alberi che dovrebbero popolare i nostri giardini.
Così, è con la gratitudine del miracolo che il cuore sussulta alla svolta della strada in cui si affacciano dai muri i festoni delle rose o le foglie dell'alloro che fanno pensare al paradiso di mai dimenticati horti conclusi o, varcato il portale di Sant'Antonio in Polesine, nell'ora del tramonto che infuoca i rossi mattoni del campanile ci canta nel cuore la gloria trionfante del ciliegio che offre fiori e profumi e rifugio a chi sa o vuol essere cittadino di una città dell'anima.