La foce del Po perse così un altro pezzo del suo fascino antico collegato alla cultura delle Valli. Oggi, con ogni probabilità, l'avremmo tenuta com'era, anche per ragioni di oggettiva redditività economica (l'acquacoltura frutta più di un'agricoltura non particolarmente specializzata in quelle terre sabbiose). In effetti, l'intervento dell'uomo è stato continuo, nei secoli, nell'idraulica del Po e quindi nella sua stessa amplissima foce. E ciò fin da tempi remoti, allorché la stessa pianura attraversata, e via via formata, dal grande fiume e dai suoi affluenti, era composta - come ci racconta uno storico del valore di Vito Fumagalli - più da acque che da terre, e queste ultime erano selve, foreste nordiche, di querce soprattutto, di cui ci restano appena due lembi: il Bosco dei Negri presso Pavia e una parte della pineta ravennate, creata invece dai Romani per dare legno di pino ai cantieri navali di Classe.
Lo stesso Boscone della Mesola è, in realtà, uno straordinario progetto artificiale degno di grandi principi rinascimentali quali furono gli Estensi. Anche se oggi quella architettura silvestre di lecci, di eriche, di altre essenze, da anni attentamente conservata, invasa spesso da un mare lì dolce, ci appare come una delle più suggestive espressioni "naturali".
Si è capito tardi, purtroppo, e forse non lo si è ancora capito del tutto, quale incalcolabile risorsa poteva rappresentare l'area del Delta. Anni fa, nel cuore dei Lidi Ferraresi cresciuti, ahimè, quasi peggio - in più di un caso - della propinqua Riviera Romagnola, c'era un servizio turistico di piccoli aerei con i quali si poteva fare un giro in cielo tra Ravenna, Venezia e ritorno. Il pilota era un uomo anziano e abbronzato, dalla faccia avventurosa («Sarà stato un motorista di Balbo nelle trasvolate», mi soffiò all'orecchio un amico).
Da lassù, in quel volo piano e lento, si potevano misurare la suggestione unica del paesaggio d'acque, di terre, di selve, di canali, di castelli (come quello della Mesola) e insieme i guasti violenti prodotti da insediamenti sbagliati, come la centrale termoelettrica di Porto Tolle, stridenti con una vocazione naturalistica che avrebbe preluso a un ben diverso futuro.
Non si è voluto capire, in Italia, quale rara occasione, anche economica, anche occupazionale - connessa cioè a un turismo finalmente nuovo, informato, consapevole, didattico - potevano rappresentare i parchi: alpini, appenninici, fluviali, marittimi. Non lo si è voluto capire soprattutto sul versante Veneto del Delta padano. Ma vi è stata una ostinata diffidenza anche su quello emiliano-romagnolo.
Eravamo ancora una volta a Pomposa, all'inizio degli anni Settanta, con Giorgio Bassani, Antonio Cederna, Mario Fazio, Paolo Ravenna e altri di Italia Nostra a parlare del Parco del Delta, e ci venne annunciata una marcia, partita da Goro, di quanti volevano a ogni costo una nuova strada litoranea che avrebbe tranciato il Boscone della Mesola e altre aree protette, ma consentito di lottizzare ampie zone a ridosso del mare. Il clima si fece teso, minaccioso.
Dovette scendere in campo l'allora neo-presidente della regione Emilia-Romagna, Guido Fanti, e spendere tutta la propria autorevolezza politica per bloccare la protesta montante. Sono tornato più volte, da turista, da viaggiatore, sul Delta: dentro il Boscone della Mesola, popolato di fauna protetta, su quelle spiagge talmente libere, nel giro ampio dei rami del Po, fra l'alta vegetazione di canne dal pennacchio ondeggiante.
E ogni volta mi sono sentito ratto in una dimensione di vita altrove irripetibile. Eppure ho risalito il Ticino, azzurro e continuamente diverso. Ho disceso il Tevere, verde e solenne. Ma qui gli spazi sono come dilatati, amplissimi, i panorami senza confine fra fiume, mare e cielo, con un azzurro di una luminescenza speciale. Tutto ciò finisce per comporre un paesaggio - della natura e dell'anima - che, almeno in Italia, non ha riscontri possibili.
Un pomeriggio domenicale di settembre (il dorato settembre della Bassa Padana) ci imbarcammo su battelli turistici che da Goro partono per un ampio giro del Delta. Venivamo da Ferrara, anzi, dal convento di clausura di Sant'Antonio in Polesine, al limite delle Mura, dove avevamo ascoltato un canto gregoriano come di vetro antico.
A Goro ci capitò invece di imbarcarci con un gruppo di gitanti veneti, tutti uomini, i quali avevano innaffiato a volontà il pasto di pesce, e non con acqua minerale. Cominciarono tosto a cantare a squarciagola, a imprecare, a sacramentare (qualche volta citando il parroco del paese lontano) in modo clamoroso. Poi però, man mano che ci addentravamo nel reticolo dei bracci d'acqua, nel fitto di quella selva verdeggiante, cominciarono a zittirsi. Forse erano esausti. Forse iniziavano ad essere presi, conquistati dalla forza di suggestione del grande fiume e del suo maestoso sfociare nel Mare Adriatico, il più legato al mito e alla storia.
Il mito di Fetonte, il quale su questi cieli immensi lancia contro il sole i cavalli sottratti al padre Apollo per poi precipitare nelle acque dell'allora dio Eridano; o quello di Minosse, il quale proprio sulle isolette del Delta trova ospitalità e rifugio. La storia dei mercanti etruschi, raffinati fino all'opulenza, i quali insediarono su queste rive, a Spina, una città portuale tra le più vitali dell'antichità pre-romana. Un rapporto che l'ancora recente mostra di Ferrara ha saputo così efficacemente saldare fra quella memoria remota e però culturalmente viva e l'oggi, il Delta che abbiamo ereditato, degradandolo non poco, con un patrimonio naturalistico, ambientale e storico tuttavia ancora ricco che sta soltanto a noi curare, conservare, incrementare.