Vancini, che ci ha lasciato pochi mesi or sono, il 18 settembre 2008, era nato, fisicamente, dentro le mura, all’ospedale, nel 1926, il 24 di agosto, ma era poi cresciuto a Boara, la prima frazione sulla strada per Copparo, comunque “altra” rispetto alla città murata. Questo suo ritratto di Ferrara, peraltro amatissima, risaliva agli anni ’30-’40 e coincideva col mio di immigrato che negli anni ’50 frequentava, arrivando ogni giorno da Copparo, col tanto rimpianto (mi dicono) trenino della Veneta, il Liceo Ariosto nella capitale del Ducato Estense. Così splendido e così crudelmente spento dal papa in quel 1598, che i ferraresi colti non hanno mai perdonato al papa-re (Clemente VIII Aldobrandini nella fattispecie) e Florestano, a lungo residente in piazza Ariostea, era fra questi. Tanto da dedicare alla Ferrara ducale i suoi ultimi sforzi: quel E ridendo l’uccise che avrebbe avuto bisogno, per la parte di corte, di ben altre risorse, e che però regge benissimo, documento dei più forti e umani, per la parte di popolo, fra la città, le taverne di via delle Volte,e il suburbio, la campagna, fra Ferrara e la foce del Po. Il colpo di fulmine, la folgorazione per il cinema Florestano l’aveva avuta sul set di Ossessione, il film che Luchino Visconti stava girando, nel 1942, fra Pontelagoscuro e la periferia di Ferrara, con Clara Calamai e Massimo Girotti, avendo al fianco quali aiutoregisti Beppe De Santis (il futuro autore di Riso amaro e di Roma ore 11) e il ferrarese Michelangelo Antonioni. Florestano era ancora studente, al Liceo Scientifico di via Borgoleoni, ma subito scattò in lui qualcosa di speciale. Quante cose sono scaturite da quel set di Ossessione archetipo del neorealismo italiano. "Scappavo, correvo làdove giravano ogni volta che potevo", mi raccontò nel ‘95. Sarebbe stato uomo di cinema, dopo una breve esperienza da cronista, da critico in erba. Lo decise nel 1949. Quando, con l’amico Adolfo Baruffi (che poi prese altre strade), progettò un documentario sui tragici amanti Ugo e Parisina. Operatore, un certo Luigi Sturla che aveva fatto cinema col muto e possedeva ancora un parco-lampade, un carrello, un binario e tanta esperienza. Durante quell’intervista gli avevo sottolineato, con ammirazione, come il suo primo film, ricavato dal racconto del concittadino Giorgio Bassani sulla terribile notte del ’43, fosse già straordinariamente maturo. Mi sorrise e poi con la sua voce ironica e pastosa buttò là: "Ma prima avevo girato trentasei documentari…" Quasi tutti sulla realtà della Bassa ferrarese, delle valli di Comacchio, del Delta. Il primo, quello su Ugo e Parisina, finanziato coi magri risparmi del padre portalettere e suoi, vinse però uno dei premi che allora la presidenza del Consiglio assegnava ai migliori documentari. Inoltre venne venduto benino agli esercenti delle sale cinematografiche. "Con quei soldi finanziai il secondo avendo creato una società chiamata, pomposamente, Este Film", ridacchiò. Ricordava l’avvocato Giuseppe Pasquale, amico di Luigi Preti e patron del calcio, che alla stazione ferroviaria gli gridava scendendo nel sottopassaggio: "Ciò, Florestano, as fa di bei baiuchìn col cine…" Era il 1949 e Vancini aveva 23 anni. Nel 1954, documentario dopo documentario, era salito al grado di aiuto, con un regista-scrittore di alto profilo: Mario Soldati. Il quale si apprestava a girare nella Bassa La donna del fiume. Doveva essere, nelle intenzioni del regista torinese, un film di qualità, come La provinciale, con Gabriele Ferzetti e Gina Lollobrigida, uscito l’anno prima e tratto da un amaro racconto di Moravia. Ma, quando il produttore Carlo Ponti gli impose quale protagonista una bella ragazzona appena uscita dai fotoromanzi, Sofia Lazzaro ribattezzata Sophia Loren, Soldati labuttò decisamente sul commerciale. Florestano mi raccontò tutta una serie di episodi divertenti sull’istrionico regista-scrittore che faceva o subiva scherzi di continuo sul set (come nascondere una anguilla dentro una borsa per poi gridare a perdifiato "Un serpente, un serpente! "). Fu serissimo soltanto il giorno in cui girò, da solo,in silenzio, l’episodio del figlioletto della protagonista che affoga nel fiume. Un piccolo gioiello filmico. Prima di partire, alla stazione di Ferrara, Soldati tentò di tutto per convincere il capostazione a far fermare un rapido, e, a forza di plateali suppliche, ci riuscì. "Comunque, anche da Soldati, che era un maestro alla macchina da presa", mi confessò, "imparai". E altro imparò dal coetaneo, il modenese Valerio Zurlini, del quale fu aiuto per uno dei suoi film più intensi, Una estateviolenta, nel 1959. L’anno dopo sarebbe toccato a lui di girare il primo lungometraggio e così nacque La lunga notte del ‘43 con Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno, Belinda Lee e Gino Cervi calato nella parte sinistra del gerarca “Sciagura”. Nella memoria del regista era ancora ben incisa la scena dei cadaveri degli antifascisti fucilati e ammassati contro il muro del fossato del Castello. Il film ebbe il premio opera prima alla Mostra del Cinema di Venezia ed Enrico Maria Salerno, indimenticabile farmacista Navarra, il Nastro d’argento. Così cominciava una lunga carriera, durata mezzo secolo, mai commerciale però e quindi mai facile, una quindicina di lungometraggi in tutto, con film di alto impegno civile culminati nel Delitto Matteotti del ’73, il più riuscito su quella tragedia, personale e politica. Sorrideva un po’ malinconico quando gli ricordavo pellicole appassionate come Amaro amaro girato, con la bella, carnale Lisa Gastoni nel cuore di Ferrara, o Le stagioni del nostro amore ambientato fra Mantova e Sabbioneta. Avrebbero meritato ben altro consenso. Fu anche il secondo regista della lunga serie televisiva de La Piovra, una incursione nel genere tv ampiamente riuscita nella quale tuttavia non si adagiò. Come nel western all’italiana del resto. Ne girò uno soltanto firmandolo Stan Vance, lui che al cinema era stato folgorato da Ombre rosse di John Ford, uscito nel ‘39. Voleva fare film di qualità e però i soldi della produzione erano sempre pochi e così alcune opere registicamente valide – per esempio La neve nel bicchiere (1984), epopea del riscatto sociale e socialista – non avevano il supporto di un cast di attori tale da farlo salire definitivamente di livello. A Roma viveva lontano, il più lontano possibile, dai giri alla moda, dalle conventicole. Cordiale e sorridente con tutti, era rimasto umanamente uno delle nostre parti che lavorava duro, serio, concentrato sui suoi temi prediletti, la storia e la cronaca fra Ottocento e Novecento, cercando di contribuire a dare agli italiani una cultura, anzi, “una istruzione”, come diceva suo nonno Luigi, bracciante analfabeta in una bovaria chiamata La Motta. A Ferrara era rimasto legatissimo nonostante abitasse a Roma da oltre mezzo secolo, dal 1952: "L’ho amata, l’amo moltissimo. La mia vita sarebbe stata diversa, molto diversa, se fossi nato altrove".
Florestano Vancini: un ricordo
Un colpo di fulmine che diventa carriera e scelta di vita
"Essere nati e cresciuti dentro le mura e fuori dalle mura aveva, ai miei tempi, un preciso significato. Ferrara sembrava come arroccata nei confronti di quella sconfinata campagna, povera e bracciantile, e poi mio papà era soltanto il postino di Boara….". Florestano
Boldini a Parigi (1871-1886)
Una grande mostra indagherà il rapporto fra Boldini
e l’impressionismo francese Attorno alla metà degli anni Ottanta, Boldini realizza un dipinto di grande fascino che esula dall’ambito per cui è rimasto celebre, quello del ritratto. Si tratta della Cantante mondana, un’istantanea della Parigi di fine Ottocento e della vita che si svolgeva, nei caffè e nei salotti musicali che l’artista frequentava assieme ad amici e colleghi come Degas.
e l’impressionismo francese Attorno alla metà degli anni Ottanta, Boldini realizza un dipinto di grande fascino che esula dall’ambito per cui è rimasto celebre, quello del ritratto. Si tratta della Cantante mondana, un’istantanea della Parigi di fine Ottocento e della vita che si svolgeva, nei caffè e nei salotti musicali che l’artista frequentava assieme ad amici e colleghi come Degas.
È una questione di sangue
Considerazione estemporanea di un fotoreporter “dolomito-padano”
Mia madre, alta, snella, di una bellezza anche volutamente poco appariscente; mio padre, al contrario, atletico, conscio del suo fascino, abbronzato dal sole di Cortina. Lei di buona famiglia ferrarese, diplomata al conservatorio, tutto tranne che sportiva; lui campione di sci e di hockey su ghiaccio e scalatore di montagne, discendente da una famiglia modesta, pionieri della fotografia in questo remoto angolo d’Italia.
Cronaca di un dissesto
Luigi Franceschini e il Piccolo Credito, nei ricordi del figlio
Ecco una bella foto “d’epoca” scattata nella nostra città di Ferrara sul piazzale di San Girolamo ( a sinistra si intravede la facciata del palazzo Mirogli-Tassoni ora sede della facoltà di lettere) ottanta anni fa. Pare una foto di turisti in giro per la città per scoprire le bellezze dei suoi angoli suggestivi e silenziosi...
Mistero e fili d’erba in Filippo De Pisis
La ricomparsa dell’erbario raccolto in gioventù dal pittore ferrarese
Molti protagonisti della cultura hanno allenato la propria sensibilità artistica raccogliendo erbe, fiori, fusti, da allisciare e comprimere tra fogli di carta “sugante”: i grandi naturalisti certo, che ancor oggi fanno ammirare –non solo ai botanici- preziose collezioni di campioni
Florestano Vancini: un ricordo
Scritto da Vittorio EmilianiUn colpo di fulmine che diventa carriera e scelta di vita
"Essere nati e cresciuti dentro le mura e fuori dalle mura aveva, ai miei tempi, un preciso significato. Ferrara sembrava come arroccata nei confronti di quella sconfinata campagna, povera e bracciantile, e poi mio papà era soltanto il postino di Boara….". Florestano
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Num. 30