I grandi strumenti di svago dei secoli trascorsi trovavano una concorrenza mai prima sperimentata: una concorrenza che interessava tanto gli scacchi, il gioco più dabbene, praticabile anche da prelati e dame, quanto i dadi che, al polo opposto nella scala della rispettabilità, erano associati da sempre a storie di divieti e bestemmie e dissesti.
Nel 1377 si parla per la prima volta in Italia di carte: a Firenze e a Siena, dove la preoccupazione per il loro minaccioso diffondersi prende corpo in severe delibere. Nel giro di pochissimi anni l'Europa si riempie di aspri divieti: da Basilea a Friburgo e Parigi, dal Brabante a Norimberga, da Barcellona all'Olanda.
E il timore non era soltanto delle autorità pubbliche se nel 1381 un mercante marsigliese in partenza per l'Egitto doveva obbligarsi con i suoi compagni, di fronte ad un notaio, a non toccare le carte per tutta la durata del viaggio. Nel 1404 anche la Chiesa si sarebbe affiancata alle autorità laiche nella condanna: nel sinodo di Langres le carte entravano nella lista dei giochi vietati.
La lotta contro le carte era peraltro destinata, come ancora ognuno può vedere, a un clamoroso fiasco. Nulla avrebbe fermato la loro avanzata. Il gioco che piace è quasi incomprimibile: al più si riesce a costringerlo nella sfera ambigua ai limiti tra il tollerato e l'interdetto; lo si sorveglierà trasformando i tutori dell'ordine in maestri del gioco, inventando di tempo in tempo le concessioni, le case d'azzardo, il lotto, le scommesse o i concorsi gestiti dallo stato. È storia molto lunga. Se nel regno di Navarra almeno dal 1227 la corona controllava le case da gioco (le tafurerças), i conti di Fiandra ne indicavano la gestione come "un ufficio". E a Ferrara, alla vigilia dell'arrivo delle carte, nel 1371 troviamo il Regolamento della gabella della baratteria, ossia la bisca pubblica.Il rilievo di Ferrara non sta soltanto nell'averci conservato quel documento di straordinario interesse. Ebbe pure un ruolo primario come testa di ponte nella Kartenspiel-Invasion.
A favorire il trionfo delle carte, a dispetto di tutte le ordinanze contrarie, risultò decisivo il fascino che ebbero fra i ceti più alti della società. Che forza potevano mai avere i bandi olandesi o brabantini se poi i libri della corte di Brabante registravano l'acquisto di mazzi di carte per la duchessa Giovanna e il consorte Venceslao di Lussemburgo, e se testimonianze analoghe giungono dalla corte olandese, al tempo di Alberto di Baviera (morto nel 1404).
Il gioco dei principi era il migliore viatico al giocare dei sudditi. In questo quadro ci fu naturalmente chi ebbe un ruolo di speciale rilevanza e di certo pochi seppero contribuire più della raffinata e brillante corte estense all'affermazione di quella nuova cultura del gioco che prepotentemente si andava affermando.
Lo straordinario apporto di Ferrara al definirsi delle nuove pratiche ludiche non si misura in termini di precocità. La prima testimonianza ferrarese è (per il momento) soltanto del 1422, anno in cui Iacobo Sagramoro - uno dei pittori ai quali gli Estensi si rivolsero con assiduità - veniva pagato dall'amministrazione ducale per avere rimesso in sesto quattro mazzi di carte. La partenza è dunque relativamente tarda, ma subito le testimonianze si moltiplicano. Così, nel 1423 la giovane marchesa Parisina fa venire da Firenze un costoso mazzo, lavorato in oro, di carte da imperatori: è il primo ricordo in assoluto di quel gioco, rimasto in voga fin verso metà secolo. Parisina non era l'unica in famiglia ad amare le carte. Il suo interesse era condiviso dalle giovani figlie, ed evidentemente non si giudicava disdicevole che delle aristocratiche giovinette si dilettassero con le carte, se da Portomaggiore nel 1424 la marchesa faceva comprare a Ferrara due mazzi di «carteselle» da poco prezzo, «per le nostre fiole». E anche il consorte, il marchese Niccolò, partecipava della stessa passione.
Si sa come il suo matrimonio con Parisina sia finito tragicamente: nel 1425 la relazione nata tra la giovane sposa e il figliastro Ugo fu punita con la decapitazione di entrambi i colpevoli del tradimento. Sulle carte da gioco, tuttavia, non sembra ci siano state fra gli illustri coniugi le incomprensioni registrate negli affari di cuore. Così nel 1434 sarebbe stato Niccolò a procurarsi da Firenze due mazzi di carte per 7 fiorini d'oro.
Se gli imperatori erano attestati già nel 1423, di lì a poco nuovi giochi sarebbero apparsi. In corte si compravano mazzi per la ronfa o lo scartino, ma da altre fonti sappiamo che in città si giocava anche a falcinelli, terza e quarta, carta di dietro, candiana, spiciga, re a cavallo, flusso o farina contro farina -, e le notizie spesso giungono dai registri dei processi e delle condanne.
Le carte a Ferrara si erano davvero ben radicate, come notava nel 1499 con evidente fastidio un anonimo diarista: «si usa et costuma de zugare a carte molto, come è a falsinelli, a rompha, a scarto... et a mille diavolamenti». Restando tuttavia all'ambiente del palazzo, ricordiamo come la passione per quei giochi fosse talmente forte da indurre il duca Borso, nel 1454, a mettere addirittura in piedi presso la corte un laboratorio specializzato, impiegandovi a tempo pieno un ecclesiastico, don Domenico detto Messore, e il pittore Giovanni di Lazzaro, detto Cagnolo.
I mazzi da loro prodotti dovevano essere di qualità alta sebbene non altissima: per le carte più raffinate si cercavano artisti di prestigio, quali il già ricordato Sagramoro o Gherardo d'Andrea da Vicenza, commissionando mazzi lavorati in oro e in argento, con «azzurro oltra-marino», lapislazzulo e con i dorsi rifiniti a scacchi o a tondelli o con le insegne del signore.
Il laboratorio del 1454, peraltro, è interessante perché mostra l'affezione degli Este per le carte dipinte a mano in un'età in cui ormai erano largamente diffuse quelle stampate: poco costose, fabbricabili in grandi quantità con le tecniche xilografiche, erano la risposta giusta ad una domanda divenuta amplissima. Ma pure in questo settore la corte estense giocò un suo ruolo, mettendosi in piedi una propria stamperia o almeno ricorrendo a stampatori al suo servizio.
Già nel 1436 (con Niccolò III), si era comprato «uno torchiolo da carte» e sappiamo anche di quel Mantovano che stampò mazzi per gli Estensi almeno dal 1436 al 1452. La passione per il raffinato prodotto dipinto non poteva reggere alle nuove realtà, ma il gusto del gioco sarebbe rimasto intatto, con acquisti "da grande comunità", come nel 1505 (con Alfonso I), quando a fine giugno si procurarono ben diciotto mazzi da tarocchi, scartini e ronfa da mandare a Voghenza, salvo poi comprarne altri quindici mazzi a dicembre.
Con tante carte in giro anche gli infortuni di gioco facevano parte della quotidianità estense. Così nel primo Cinquecento si registrano i debiti del figlio di Ercole I, Sigismondo, giocatore davvero poco bravo o molto sfortunato, e quanto a sua sorella Isabella (andata sposa al marchese di Mantova), penò assai cercando di recuperare quell'anello a lei caro, vintole da un nobile ferrarese il quale poi lo perdette con un «zugadore» professionista. Peraltro le situazioni di rischio non spaventavano troppo e che le carte fossero una presenza assolutamente normale ce lo dice il fatto che continuassero ad essere messe in mano ai fanciulli di casa. Così sappiamo dei mazzi comprati (nel 1516) «per li illustri figlioli del nostro Signore» (cioè di Alfonso I); in particolare per «don Hercule» I (Ercole II, succeduto al padre dal 1534), allora bambino di otto anni, si acquistavano sì libri di Ovidio, Virgilio o Plinio, ma anche scartini e tarocchi.
Sembra ripetersi quanto visto circa un secolo avanti, con le figlie di Parisina, ma i tempi avevano portato nel mondo delle carticelle parecchie novità, a cominciare dall'invenzione del tarocco.
Passatempo raffinato, tipicamente di corte, divenne subito il più «onorevole» fra i giochi di carte, ancora lontanissimo dagli stravolgimenti che, da fine Settecento, ne fecero strumento per la previsione del futuro e per letture esoteriche. Proprio dalla corte estense giungono le prime testimonianze sicure sui tarocchi (o, come si chiamarono per tutto il Quattrocento, i trionfi): siamo nel 1442, ai tempi del marchese Leonello, quando il solito Sagramoro riscuote il compenso per averne dipinto quattro mazzi.
Nello stesso anno si pagano ad un merciaio le «carte da trionfi» destinate a Ercole e Sigismondo (due dei fratelli di Leonello): evidentemente i tarocchi erano già così diffusi da poterli facilmente trovare in merceria.
Il nuovo gioco, probabile invenzione della corte ferrarese, portava grandi novità. Aggiungeva al tradizionale mazzo di carte numerali e figure dei quattro semi (bastoni, coppe, denari e spade) le 22 figure note come trionfi, che dettero appunto nome al gioco e vennero poi indicate come arcani maggiori al tempo delle contaminazioni esoteriche. Con il Bagatto, il Mondo, l'Angelo, il Sole o la Papessa veniva anche introdotto (forse in parallelo con un gioco d'oltralpe, il Karnöffel) il principio della carta predominante: la briscola o atout.
Ma i trionfi nel raffinato mondo estense furono anche occasione per vere opere d'arte, oltre che spunto per raffinati componimenti poetici, come quello steso da Matteo Maria Boiardo verso il 1461, noto proprio col titolo di Tarocchi, ulteriore testimonianza dello spazio assegnato dalla cultura estense alle carte.
Negli anni del Boiardo, tuttavia, le carte da gioco (compresi i tarocchi) non erano assolutamente più una novità. Si era da tempo chiusa quella fase decisiva per la storia della ludicità avviatasi negli ultimi decenni del Trecento, nella quale l'ambiente ferrarese aveva svolto un ruolo assolutamente primario.