L'allarme, da me lanciato all'ultima riunione del comitato editoriale di questa rivista, si inscrive in un più vasto disagio: quello per la prevalenza e invadenza dell'immagine veicolata dalla televisione nella nostra società. Abbiamo ogni giorno motivo di allarme e riflessione per questo aspetto così sbilanciato della nostra comunicazione e informazione. Tutti i giorni, orrendi fatti di cronaca, anche nella nostra provincia, riportano il disagio di dover riconoscere il ruolo determinante, nella trasmissione dei modelli comportamentali, della Tv.
La violenza sui giovani, sui bambini è solo l'ultimo esempio di questo potere d'influenza tanto diretto quanto nefasto, tanto sottile quanto tossico, tanto comodo quanto pericoloso.
Nasce da questa riflessione l'avvertita necessità di allargare l'orizzonte dell'attenzione, anche ai livelli delle istituzioni culturali deputate, dal fin troppo privilegiato mondo dell'immagine, sia pure d'arte, a quello della parola, auspicando che sia d'intenzione letteraria. E perché quest'attenzione sia nutrita, fin dalle fondamenta, di un futuro, come una pianta da curare, bisogna rivolgere lo sguardo, nel mondo della parola scritta, ai giovani, a quella parte di giovani che anche a Ferrara, alle soglie del 2000, coltivano nel cassetto un sogno diverso da quello di Pissarro e di Abbado.
Il sogno dello scrivere, di affidare a libri di poesia o di narrativa o di saggistica il meglio della loro intelligenza creativa.
In tale ambito di propositi è da salutare con particolare simpatia la bella iniziativa dell'Assessorato alle istituzioni culturali, il 6 febbraio scorso, presso l'enoteca "Al brindisi". Decine e decine di giovani, quel giorno, si sono riuniti per declamare e ascoltare, in uno spazio aperto, testi poetici o narrativi, editi e inediti.
Sono stato ad ascoltarli con enorme interesse, felice di constatare come sia fertile l'humus letterario giovanile anche a Ferrara.
Ricordo le letture di Carlo Maiotti, Bruno Bruglia, Gabriella Pranzo, Toy Aiello, Guido Marchigiani, Monica Pavani, Sergio Fortini, Luca Bolognini, tanto per rammentare alcuni dei nomi che più mi hanno colpito per l'originalità e necessità delle loro creazioni letterarie.
Si deve a Monica Pavani una splendida traduzione di una poetessa poco nota in Italia: Catherine Pozzi, la donna amata da Paul Valéry. La suite di poesia che la Pavani ha letto, Canto alla grazia, è in gran parte ispirata alla potenza dell'amore, ma anche al tema altissimo della morte come trasmigrazione di stato, come passaggio nel cosmo ad altro stato. Un'emozione rara, sentire dalla viva voce della nostra traduttrice un canto così alto e poco conosciuto ancora in Italia. La Pavani, che ha già tradotto per Guanda, cerca un editore per un poema inedito della Pozzi: sarebbe un peccato che non lo trovasse.
Ricevo spesso manoscritti di giovani che in gran parte testimoniano la più che legittima aspirazione a un'udienza. Ma non sono sempre certo che l'udienza a cui aspirano sia quella dell'editore. La maggior parte chiede un segno di attenzione che la solitudine e l'età acerba consentono di capire, ma non di incoraggiare verso la pubblicazione. A questa tendenza confessionale privata devo dire però fare eccezione alcuni casi. E sono felice qui di riconoscerli, sperando di offrire loro un'occasione di quella udienza meno affettiva e casuale che i loro scritti meritano.
Ivan Zucconelli è un giovane di Mezzogoro, di ventitré anni, iscritto all'ultimo anno di scienze biologiche; di lui e del suo bel racconto Ritorno a Ginevra mi sono già occupato su alcuni quotidiani nazionali, come Il Gazzettino di Venezia e La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari. Nel racconto Zucconelli narra la vita, ricapitolata da vecchio, ormai in vista della fine, di un grande professore - De Koonig - maestro di ricerca scientifica per generazioni si studenti. E di un grande amore, quello che aveva unito per tutta la vita De Koonig alla sua donna, Juette.
L'ansia di imparare, la sete di maestri, il bisogno della scienza come il bisogno dell'amore sono alcuni dei temi alti di questo lungo racconto di trentasette cartelle, scritto in uno stile coltivato, nutrito di vaste letture, ricco di una forza dello sguardo che si proietta sul futuro, camuffato come sguardo retrospettivo del protagonista, ormai vecchio.
Si ha la sensazione che Zucconelli abbia lavorato in positivo traendo forza dal negativo: ci vuol dire che non ha avuto maestri, ma spera di incontrarli; che non ha ancora amato ma vive per l'incontro che verrà; che tutta l'omissione di sapere, poesia, amore, amicizia che è la sua giovane vita ancora, è solo fede che la sinopia vuota della sua esistenza verrà riempita.
La sua sete di valori testimonia l'insufficienza dell'università, delle istituzioni, della società, della città, di tutti noi, insomma, che siamo questa società. Eppure c'è una fiducia, una pacatezza, una serenità nella sua denuncia, da lasciare pieni di speranza. Non ci sono solo i giovani di Tortona, coi loro sassi, vien da pensare; ci sono anche questi giovani, che non fanno rumore e silenziosamente fanno il loro dovere studiando. Sono la forza silenziosa del bene, il futuro.
Di tutt'altro segno, ma sempre motivo di compiacimento e di fiducia nel clima culturale della città, l'operazione fatta con tanta spregiudicatezza e intelligenza dai meno giovani Riccardo Roversi, Roberto Guerra e Louis Olivencia, che hanno di recente dato alle stampe la sapiente provocazione del loro libro Le muse impudenti (ed. Delta).
I due poeti ferraresi Roversi e Guerra, insieme all'amico pittore newyorchese Olivencia, ferrarese di adozione, nei racconti che allineano, tutti giocati fra miti e spettri del passato ferrarese - Lucrezia Borgia, Marfisa d'Este, Charles de Brosses di passaggio da Ferrara, Goethe che per la prima volta da quando è in viaggio in Italia è preso da depressione proprio a Ferrara, il mago Chiozzino, Ugo e Parisina, una lettera immaginaria ad Alfonso II, i bordelli e i conventi... - rivisitano alle soglie del Duemila l'intero millennio di esistenza della nostra città.
È come se questi giovani autori facessero il bilancio di quel che conviene portare e quel che conviene buttare prima del salto nel nuovo millennio, si fanno dissacratori e onirici, surrealisti e metafisici, grotteschi e iconoclasti. In altre parole, vivi e moderni, testimoniando la difficoltà di vivere e di creare il nuovo in una città narcisa, afflitta da una malattia del passato che le impedisce, talvolta, di vivere il suo irripetibile e unico presente.
Roversi e Guerra pare che facciano il verso alla tradizione, per potersi salvare dall'abbraccio mortale della Storia. Viene in mente un consimile atteggiamento di rottura di Federico Nietsche nella sua famosa opera Sull'utilità e il danno della storia. Un'opera che fu scagliata in viso all'accademia tedesca, al mondo universitario e alla sua cultura ingessata nella filologia e nel culto meduseo del passato, circa a metà del secolo scorso.
Al di là degli esiti formali del libro, in qualche pagina non esente da qualche superficialità e trasandatezza, si può cogliere la salute del gesto che i nostri autori ferraresi hanno avuto il coraggio di affidare alla scrittura, puntando anche sul suo valore di denuncia e provocazione.
Due parole vorrei poi spendere per un giovane poeta, Sergio Fortini, che ha pubblicato Ferite da piccolo taglio, molto influenzato forse dalla moda pulp - e ne ha tutta la libertà di subirla. L'ho sentito leggere, la sera del 6 febbraio, alla manifestazione tenutasi "Al brindisi", poesie di forza metaforica e ricchezza linguistica notevole, lette anche con sapienza e passione.
Anche Fortini promette bene per il futuro e fa pensare che siano molti di più di quel che potevamo sospettare i giovani ferraresi che un giorno potranno ereditare il retaggio di Corrado Governi, Lanfranco Caretti, Giorgio Bassani. Nel settore della critica e della saggistica già si distingue un giovane di cui ho l'orgoglio di aver prefato e presentato anni or sono, in città, un'opera narrativa di originale invenzione: è Andrea Pagani, di cui ormai è nota l'attività critica che spazia dal Tasso a Calvino.