Il mio tema era, ricordo, che un libro impegnativo era sempre destinato al silenzio dei recensori e specie di coloro che si ritenevano indispensabili, e dunque dei responsabili di rubrica giornalistica o settimanale allora molto diffusi o autorevoli. La qualità rendeva impegnativo il confronto. Credo che io avessi ragione, ma il mio argomento non forniva lenimento alcuno all'amico addolorato. Anzi.
C'era anche una ragione più intima e lontana che in molti modi inaspriva la condizione che Arcangeli stava vivendo. Nel 1934, l'anno che era stato tutt'insieme di inizio delle lezioni di Roberto Longhi nell'Università di Bologna e di pubblicazione della sua Officina Ferrarese (questa sì una recensione motivata alla mostra dedicata l'anno prima al Rinascimento ferrarese da Barbantini), Arcangeli aveva conosciuto Longhi. Assisteva insieme ad Alberto Graziani alla famosa prolusione del primo dicembre e naturalmente la coppia di studenti non seppe più distaccarsi da un così travolgente professore. La cosa coinvolse subito anche Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Franco Giovannelli, Augusto Frassineti e altri ancora.
Chi ripercorra il libro di Longhi, scoprirà che, seguendo un topos altre volte praticato, il suo grande scrittore aveva fatto auspicio che, piuttosto prima che poi, un giovane di ingegno potesse affrontare la costruzione di un vero, impegnativo saggio critico dedicato allo sconosciuto artista ferrarese.
Il primo laureato bolognese di Longhi, con il suo genio avverso e insieme affettuoso e drammatico, perduto anche l'equilibrio che gli era sempre stato garantito dall'angelico amico Graziani, purtroppo scomparso nell'orrore della guerra, proponeva insomma di essere valutato per quello che egli pretendeva di essere, e dunque quel giovane che di lontano e in silenzio aveva seguitato a studiare il Bastianino.
Nell'aprirsi sempre più angoscioso della forbice fra Longhi e il suo primo allievo, infiammate ormai le latenti avversioni reciproche a proposito dell'interpretazione dell'informale, mentre già stridevano le punte del fioretto nella grave questione delle origini dei Carracci (1956), l'affare Morandi stava coinvolgendo in un più generale giudizio Longhi e la pittura picassiana italiana: a cominciare dall'ormai quotidiana presenza di Guttuso in via Benedetto Fortini n. 30, villa "Il Tasso".
A ripensarci, su questo fronte le posizioni di Arcangeli erano tanto degne di una miglior attenzione, da far sembrare oggi impossibile che si potesse equivocare, per esempio, sulla richiesta di una maggiore, necessaria potenza di un neo romanticismo informale, sulla posizione rivoluzionaria di Claude Monet e sulla funzione-guida che Ludovico esercitava nel gruppetto d'avanguardia dei giovani Carracci. Oggi, poi, che il Metropolitan Museum ha acquistato di costui un dipinto giovanile per la bellezza di dieci miliardi di lire! E via dicendo. La mia memoria sta ricostruendo, dunque, un libro su Bastianino proposto e scritto come modello di un'attualità armata, intesa a sorreggere una memoria innocente qual era quella che si ostinava a corrispondere a Roberto Longhi a saldo di quell'impegno che egli trent'anni prima e per così dire ormai ex cathedra, aveva sollecitato.
Non c'è momento nell'indagine innovativa di Arcangeli che non faccia del Bastianino l'eroe un poco inatteso di una vita cortese, giunta a una sorta di amara e stremata decadenza. Un tramonto della rinascenza che, di fatto e di diritto, evita di percorrere le strade dell'ohne Zeit e cioè della pittura senza tempo che Zeri aveva rimesso in auge solo nel 1957, con quel suo Pittura e Controriforma, perfetta recensione del doppio volume di Hermann Voss del 1921, ma capace di accendere luminescenze piene di storia e d'arte nel segreto rabbrividente delle sacrestie gesuitiche. Ciò era avvenuto mentre noi tutti stavamo colmandoci di luce naturale e di quotidianità evangelica nel grande ritorno interpretativo della Riforma cattolica suggerito da Paolo Prodi sulla base delle pagine di Hubert Jedin.
Ma Arcangeli era troppo colto per adottare il punto di vista della Riforma, per quanto attuale fosse: e per costruire anche sui raffinati territori estensi un'interpretazione cattolica, e soltanto ortodossa. Egli aveva assistito nella sua giovinezza alla stesura meditata, una sorta di capolavoro storiografico e filosofico, del lungo saggio su Bartolomeo Cesi di Alberto Graziani, sua tesi di laurea presto edita su Critica d'Arte nel 1939.
Da essa s'era mossa anche l'interpretazione saggistica di Zeri.
Il problema del Bastianino era quello, si direbbe in vita come in morte, di non apparire legato a nessuna tra le grandi coordinate artistiche conosciute. Collocato senza immediata identità tra il vecchio Tiziano e il vecchio Michelangelo, egli ha vissuto una vita latente, priva di una vera visibilità artistica. Del resto, basta pensare ai modi della sua apparizione baluginante, ingombrante, la sua forma cromatica affiorava nella penombra delle chiese ferraresi, con un'immagine di nebbia.
Una forma così non poteva che evocare Venezia, ma come far passare Tiziano in questa rifrangenza misteriosa? Anche qui, Arcangeli doveva fornirci lo strumento tutto ferrarese e tassiano del "parlar disgiunto" di cui diremo poi. Si capisce bene come nella tradizione, proprio a questo punto, qualcuno avesse meditato di impiantare il Bastianino ancor più localmente, affondandolo in una humus padana. E insomma far scaturire quella mormorante naturalezza da una specie di controriforma ottocentesca: prima le nebbie mantovane di Bazzani, poi quelle milanesi di Tranquillo Cremona e infine l'immaterialità di Medardo Rosso.
Riesce molto contraddittorio segnare un destino a un'anima così terribilmente avvinta al ceppo luministico di Tiziano e alla trapassata mistica di Michelangelo nella cappella Paolina in Vaticano. Sono due vecchi così diversi e tuttavia destinati a segnare di una scia inestinguibile la loro età penitenziale. Per questo il loro destino non si misura sulla scoperta della quotidianità, che è la grande conseguenza dell'esortazione evangelica nata dal Concilio Tridentino. Il loro destino non regge al contrappunto della storia minore. Per questo, l'ossequio di Bastianino sembra paragonarsi davvero a esperienze così lontane.
La costituzione di immagine del Bastianino era rimasta affidata alla dimensione inventata da Longhi nel 1934. Davanti al balenare sommerso dell'abside del Duomo con il suo Giudizio, egli fece apparire il profetismo celtico di William Blake. A rileggere oggi ancora quella mezza pagina, le esortazioni sono ancora là, intatte. Una mano l'aveva data il vecchio Baruffaldi con il suo giudizio attento al "gusto velato" dell'artista per le nebbie di casa. I "titani cinerei" venivano rimandati al michelangiolismo di una forma non più trionfante e semmai penitenziale. Seguiva, poi, la splendida intuizione di veder dentro il cuore stesso del Bastianino la capacità - diceva - di "trasmutare dati d'arte e non di natura", aggiungendo il richiamo a certe "quintessenze" già distillate, arte su arte, dall'antico Ercole Roberti.
Un isolato in patria. Ed era sulla lunga distanza, il massimo che un lettore raffinatissimo potesse appuntare sulla pagina. Il resto era davvero affidato, come una orgogliosa premonizione, a un giovane critico. Si può cercare di rileggere arretrando. Nessuno assomiglia al Bastianino, neanche dentro le mura di Ferrara.
Il problema di quale sia la ragione di quel gonfiarsi e levitare di questa umana materia che non accede a un naturalismo diurno, riconoscibile, ma che sèguita a prosperare freddamente, spingendosi sull'ombra circostante: senza la ricchezza fisiologica di un organismo vivente né la promessa simbolica o, tanto meno, una metamorfosi possibile. Quanto a trasmutare dati d'arte, è questa la condizione delle culture cortigiane, che fanno crescere l'arte sull'arte, su distillazioni di forma pre-formata e quintessenze, appunto, raffinatissime.
Una precognizione del titanismo del Bastianino è forse immaginabile, oggi, nelle figure spoglie delle Arti Liberali che già furono nella Raccolta Johnson, corpi virili più denudati che liberati nello spazio, in positure classiche sovraccaricate da incipienti pinguedini: davanti a muti orizzonti. Già Dosso è un artista che lavora sull'arte, privo come appare di tessiture naturalistiche. Gli è propria la distanza che la corte metteva fra sé e il mondo quotidiano, si direbbe un "vissuto" di classe. Bastianino, a sua volta, assorbe anche la mancata confidenza religiosa che si è accumulata in una società complessa come quella ferrarese.
Con un'anima così avvinta al ceppo luministico dell'ultimo Tiziano e alla trapassata misura dalla forma di Michelangelo, il Bastianino sembra davvero trascinato da due grandi esperienze giunte al termine. Si tratta di un'evoluzione che ruota su se stessa, non modella il suo stile su una consecuzione. Le relazioni di cultura e di costume stilistico non si apparentano, se non per larghe famiglie. Fece bene Jadranka Bentini, nel 1985, a costruire una mostra-dossier sul caso Bastianino, proponendo una rivisitazione di tutti i casi che vorremmo dire inscritti nel sentimento della "forma velata", da Taddeo Zuccari al Barocci, da Pirro Ligorio a Tommaso Laureti e poi a Veronese e a Tintoretto e a Tiziano stesso, giungendo alla forma accesa.
Più di recente, e sempre adottando la mostra come un laboratorio sperimentale per la conoscenza del pubblico, ci siamo impegnati nella possibile illuminazione di un'affermazione di Torquato Tasso, quella che parlava a Ferrante Gonzaga, nel 1575, di un "parlar disgiunto", particolarmente propizio alla dissoluzione del procedere sintattico del discorso e all'istituzione di un sistema espressivo fatto di analogie e di concordanze. A noi parve un'intuizione parallela a quella che, proprio alle stesse date, regola il regime e il rapporto fra luce e colore nella pittura italiana tra Emilia e Veneto, e anzi Adriatica, la libera intuizione che unisce Bassano e Barocci, Veronese e Tiziano: e alla fine il grande Tiziano più tardo e di materia sentimentale dissolta.
La sua Trasfigurazione di Cristo di San Salvatore di Venezia era il dipinto centrale di questo confronto a più punte. Si trattava, d'altronde, della composizione cui Arcangeli stesso aveva fatto riferimento allo scopo di identificarvi parte consistente delle pulsioni del Bastianino volte alla emulsione di colore e luce. I compagni di strada della riforma della pittura italiana, vent'anni dopo il Concilio Tridentino, e dunque coloro che avevano posto in accelerazione - sul modello operante di Tiziano - la molecola cromatica di fronte all'irrompere della luce, furono per molte settimane riuniti a confronto nel salone d'onore di Palazzo dei Diamanti, nel nebbioso autunno di Ferrara, per una prova di fatto circa l'estendibilità linguistica del "parlar disgiunto" come primo affioramento critico della poesia moderna.
Queste esperienze ci hanno condotto, ritengo con esauriente preparazione, all'attuale restauro del Giudizio Finale del Duomo.
Proprio di questo la mostra del "parlar disgiunto" e della pittura di luce è stata un avviamento di sperimentazione per cogliere, di un così angosciato complesso, il modello critico per un restauro liberatorio: proprio perché di luce si serve la disgiunzione dei legamenti sintattici per frangere il colore e una volta ancora disperdere - e dall'alto - ogni disegno organico naturale.
"Rien est matériel dans nature" diceva Medardo Rosso: e Arcangeli lo ricordava in quella sua tormentata estate del 1962, all'atto di chiudere il suo itinerario sul Bastianino. Un "romantico interrato", scriveva, quasi che il pittore fosse improvvisamente passato da una condizione di trasparente palude a un arresto della forma cromatica, bloccata in un cielo color lavagna. Da un massimo di materialità corrotta e fustigata, la materia del Bastianino lascia balenare la sua spoglia luminosa: e lo fa scoprendo la trama violenta della pennellata che si libera d'ogni peso. Ciò che più impressiona è l'irrigidirsi di questo tessuto lacerato, una seta squarciata che solo la distanza, nel profondo del catino absidale, ricompone come forma generale e tuttavia lascia intravedere nella sua balenante incompiutezza.