Aveva debuttato nella stagione 1797-98 ad Ancona, dopo che, con l'arrivo dei Francesi e con l'avvento della Repubblica, era finalmente caduto nell'ex Stato pontificio l'assurdo divieto per le donne di calcare le scene.
Non si sa se fosse con lei il marito Giuseppe Rossini, detto Vivazza per il suo esuberante carattere, il quale spesso l'accompagnava in orchestra quale suonatore di tromba e di corno (in quel 1799 doveva essere processato e carcerato a Pesaro perché "giacobino").
Sovente, i due coniugi - lei bella donna, di voce aggraziata, autodidatta, lui temperamento focoso, anticlericale, buon strumentista - si portavano dietro pure il figlioletto nato nel 1792, che molto presto cominciò a suonare svariati strumenti, a fungere da accompagnatore al cembalo, a cantare e a recitare con abilità.
Tutto ciò ancor prima di compiere studi regolari, presso i canonici Malerbi a Lugo (patria del padre e di un nonno anch'egli suonatore di tromba squillante) e successivamente al Liceo Filarmonico di Bologna.
Di sicuro il ragazzo Rossini fu a Ferrara, ingaggiato come maestro al cembalo (questi, all'epoca, aveva funzioni importanti di concertatore, mentre il primo violino fungeva da direttore), nella stagione di Carnevale 1809-1810, sempre al Teatro Comunale. Pur essendo allora diciassettenne, aveva già un passato di cantante (in questa veste era stato accolto all'Accademia Filarmonica di Bologna), di strumentista e compositore.
A dodici anni aveva infatti composto sei Sonate a quattro, belle e d'impronta molto "tedesca" (fra Haydn e Mozart), e nel 1808 aveva musicato, come saggio liceale, una molto personale Cantata per tenore, e due Messe.
Comunque, nel dicembre del 1809, il Giornale ferrarese annunciò che, con Rossini al cembalo, la compagnia avrebbe rappresentato al Teatro Comunale il dramma buffo Il podestà di Chioggia di Ferdinando Orlandi e il ballo mitologico Armida.
In quei giorni il ragazzo fece conoscenza col conte ferrarese Francesco Aventi, comandante della Guardia Nazionale, ma con una accesa (quanto poco corrisposta) passione per il teatro.
Fu proprio il conte Aventi, di famiglia facoltosa, a provocare un nuovo soggiorno di Gioacchino a Ferrara, alla fine dell'inverno del 1812. In periodo quaresimale infatti i teatri potevano aprirsi soltanto per l'esecuzione di oratori o di drammi di soggetto religioso oppure classico, e Aventi commissionò a Gioacchino, appena ventenne, una nuova opera su di un suo libretto, Ciro in Babilonia. In cui, per la in verità, si affastellavano confusamente le vicende babilonesi e la conquista di Ciro il Grande.
Ma la vena compositiva del Pesarese fluiva così intensa da trasformare in pregiati metalli musicali anche il piombo di quei versi. Un altro ferrarese, poi amico di lungo corso, il quasi coetaneo Gherardo Bevilacqua Aldobrandini, pittore di scene e poeta teatrale, lo volle ospite nel suo palazzo di città.
Di quel Ciro in Babilonia, fu lui a dipingere le scene, "con Berti, eccellente pittore bolognese". Reduce dal caldo successo ottenuto in gennaio al San Moisè di Venezia con la farsa L'inganno felice, Gioacchino riuscì a portare a Ferrara alcuni cantanti di spicco.
Lo era sicuramente il contralto Marietta Marcolini da lui conosciuta a Bologna. Donna di forme seducenti e di splendida voce, allora poco più che trentenne, aveva per il ventenne musicista una simpatia che a qualcuno pareva assai più che maternale.
Avrebbe cantato en travesti la parte di Ciro il Grande. Con lei c'erano un buon soprano, la bolognese Elisabetta Manfredini, e un valido tenore, Eliodoro Bianchi. Il resto della compagnia scricchiolava. La seconda donna, Anna Savinelli, "non soltanto era brutta oltre il lecito", raccontò molti anni dopo Rossini al musicista Ferdinand Hiller, "ma anche la voce era al di sotto di ogni decenza". La poverina possedeva, di fatto, una sola nota, il si bemolle centrale. "Dunque scrissi per lei un'aria nella quale non dovesse cantare nient'altro che questa nota".
Essa le venne però così bene che il pubblico andò in delirio lo stesso. "La mia monotona cantante fu felicissima del suo trionfo". Si trattava di un'aria "di sorbetto", affidata al secondo soprano affinché si segnalasse mentre nei palchi si distribuivano i sorbetti, quindi col pubblico molto distratto. Preceduta e accompagnata dalla viola solista, la melodia fu invece tale da vincere il brusio del Comunale.
Rossini preparò con cura questo suo debutto ferrarese nel dramma quaresimale e questo gli riuscì pieno di grazia e di solennità. A riascoltarlo adesso, è pieno di intuizioni geniali, di raffinatezze orchestrali, di musica molto variata, dal grave al patetico, all'eroico.
Ci sono arie e cori di ampio respiro che, dopo la "prima" del 14 marzo 1812, fecero scrivere al cronista del Giornale del Dipartimento del Reno: "Il sig. Rossini ha meritato replicate dimostrazioni di applauso ad ogni pezzo(...)Questo giovane maestro dà le più belle speranze al teatro ne' suoi talenti musicali che potranno via maggiormente svilupparsi con l'attenzione e lo studio". Ne uscì male invece il povero librettista, il conte Aventi.
Allorché il melodramma (segno di successo) fu ripreso a Venezia, il recensore lo lapidò così: "Questo Ciro è opera di un dilettante e ben si vede". Per la verità, Rossini aveva già scritto qualche anno prima un altro dramma, Demetrio e Polibio, richiestogli dal tenore-impresario Domenico Mombelli. Che però lo mise in scena, al Teatro Valle di Roma, soltanto alla metà di maggio del 1812. Per cui il vero esordio teatrale di Gioacchino nell'opera seria rimane questo Ciro in Babilonia di Ferrara del marzo 1812.
Il compositore, ormai lanciato, tornò al Comunale un anno più tardi, dopo la stagione del gran debutto alla Fenice di Venezia con un melodramma eroico, Tancredi.
Bene accolto anche se, nelle due prime serate, per la fatica, la tensione e un cattivo stato di salute, le protagoniste, il contralto Adelaide Malanotte (o Malanotti) e il soprano Elisabetta Manfredini, si erano sentite male, interrompendo la recita. Il Tancredi della Fenice, a differenza del dramma di Voltaire da cui era tratto, aveva tuttavia un finale lieto. Un mese più tardi, la bellissima opera neoclassica di Rossini andò di nuovo in scena al Comunale di Ferrara, con qualche ritocco e, stavolta, col finale tragico.
Il testo di quella nuova conclusione l'aveva scritto il conte Luigi Lechi, letterato, patriota, amico di Foscolo e di Manzoni, e amante della fascinosa Malanotte, dai grandi occhi neri e dalla voce vellutata. Essa, come già alla Fenice, sarebbe stata, en travesti, l'eroico Tancredi. Per la morte del protagonista, Gioacchino scrisse una musica del tutto insolita, un addio alla vita estenuato, essenziale, senza virtuosismi canori, accompagnato da un coro commosso e da poche, sommesse note degli archi. "Effetto senza precedenti e stupefacente", secondo il grande critico Fedele D'Amico. Musica del futuro, troppo avanti per il pubblico di quel 20 marzo 1813. Che infatti reagì freddamente, non adattandosi però, soprattutto, al finale tragico.
Lo stesso Rossini dovette essere stupefatto da quanto aveva scritto, aggiunge D'Amico, se a Parigi, cinquantaquattro anni dopo quella "prima" ferrarese, quando gli eredi Lechi gli presentarono l'autografo per autenticarlo, l'anziano musicista vergò questa frase: "Dichiaro (e non senza rossore) essere questo un mio autografo del 1813!!! Che tempi!!! Aujourd'hui c'est autre chose. G. Rossini".
La cabaletta "Di tanti palpiti" cantata da Tancredi aveva dato a Rossini fama europea, a ventun anni appena. Oggi, quel bellissimo finale tragico viene rappresentato sovente, per cui si parla di un "Tancredi di Ferrara".
Fotografie: © Marco Caselli.