Il gioco dei doppi

Scritto da  Guido Fink

Giorgio Bassani, secondo da destra in prima fila, con i compagni del Liceo classico Ariosto, nel 1933. Un ricordo di Giorgio Bassani (e di Bruno Lattes).

Per ragioni di forza maggiore, non ero presente il giorno dei funerali di Giorgio Bassani nel cimitero israelitico di Ferrara: quel cimitero che in una pagina famosa de Gli occhiali d'oro dà al narratore un senso di "gran dolcezza, una pace e una gratitudine tenerissime", e gli permette di recuperare, anche nel brutto momento delle leggi razziali, "l'antico volto materno della mia città", facendo cadere all'istante "quel senso di esclusione che mi aveva tormentato nei giorni scorsi."


E non ho nemmeno davanti a me, per ricordare o riassaporare le sue parole, l'ultima e definitiva edizione della sua opera, il bellissimo Meridiano curato da Roberto Cotroneo: nella biblioteca universitaria della città dove vivo il libro figura nei cataloghi, ma è stato preso a prestito nei giorni scorsi, forse in seguito alla notizia della scomparsa dell'autore, riportata con grande rilievo dai principali giornali negli Stati Uniti. Ho davanti a me solo l'edizione 1980 del Romanzo di Ferrara, sulla quale l'autore doveva poi lavorare e intervenire con instancabili (e discusse) operazioni di riscrittura: e non escludo, quindi, che le citazioni più sopra riportate, o quelle che eventualmente potrebbero seguire, risultino, involontariamente, superate.

 

Certo, è l'uomo Bassani, vivo, che in questo momento dovremmo ricordare. Potrei cominciare, io che ho infiniti motivi di gratitudine nei suoi confronti, dal momento in cui, io e i miei compagni di prima classe alla scuola ebraica di via Vignatagliata, delusi dall'assenza della nostra maestrina Alberta, che tanto amavamo, l'abbiamo visto presentarsi, con aria seccata di "supplente" momentaneamente distaccato dalle classi superiori, sulla porta dell'aula ("è il fratello della Jenny", diceva qualcuno di noi per rassicurare sé e gli altri); e non senza sommessi brontolii ci siamo messi a scribacchiare qualcosa sul tema, profeticamente intitolato "Il mio giardino", che lui ci assegnava, sordo alla timida protesta che noi, IN prima, di temi non ne avevamo mai fatti.

O potrei passare a un altro momento, di molti anni successivo, che al ricordo mi riempie di imbarazzo come davanti a un immeritato regalo: quello in cui, guidando con aria distratta ma sicura per le strade di Roma (erano i primi anni Sessanta, io avevo appena ottenuto un visto per gli Usa), mi raccontava come pensava di continuare e di chiudere i Finzi Contini, dopo la prima parte che qualche giorno prima aveva letto ad alta voce, nella nostra vecchia casa di via Bologna, a mia madre, a me e a pochi altri amici. Ma non credo che sia giusto - di più: non credo che sia possibile - ricordare Giorgio Bassani uomo, e sia pure con l'affetto e l'ammirazione che merita, staccandolo dalle pagine di un'opera che altro non è se non un lungo processo di scoperta di sé, quello che Marilyn Schneider ha chiamato il costante cammino verso la self-inscription.

C'è scritto, a chiare lettere, nelle ultime pagine del testo del 1980 che ora ho davanti a me, e che si intitolano Laggiù in fondo al corridoio: "Non certo per aridità, ma anzi, forse per difendermi da un eccesso di partecipazione emotiva, io nelle Cinque storie ferraresi IN pratica non figuravo. Raccontando di altri con cuore perfino troppo fraterno, solidale, avevo sempre avuto cura di tenermi celato dietro gli schermi tra patetici e ironici della sintassi e della retorica"; fino al momento della svolta.

"Riflettori dunque anche su di me, d'ora in poi, scrivente e non scrivente: su tutto me." A partire da adesso valeva la pena che l'autore di Lida Mantovani, della Passeggiata prima di cena, di Una lapide IN via Mazzini, degli Ultimi anni di Clelia Trotti, di Una notte del '43, nonché dei primi tre capitoli degli Occhiali d'oro, provasse a uscire anche lui dalla sua, di tana, si qualificasse, osasse dire finalmente "io". E l'io, lo studente ebreo ferrarese che a un certo punto degli Occhiali d'oro si distacca dal coro, sarà protagonista e narratore del Giardino, e IN modo anche più bruciante IN Dietro la porta, per nulla dire dell'opera in versi.

Una cosa che mi ha sempre incuriosito, e che mi dispiace di non avergli mai chiesto, è il rapporto fra il personaggio che dice io, nelle sue pagine, e una sorta di alter ego più goffo, meno generoso, più aggrovigliato e a tratti moderatamente antipatico, che appare per la prima volta in Clelia Trotti, anzi, ne è il narratore e protagonista, e che si chiama Lattes, Bruno Lattes.

Certo, le figure in cui l'autore si rispecchia in parte esistono da sempre, fin da prima della "svolta" e dei "riflettori anche su di me": basti pensare al David di Lida Mantovani, ex Storia di Debora. Bruno Lattes è il ragazzo ebreo che in Clelia Trotti insegna (come Bassani) alla scuola ebraica di via Vignatagliata e (come Bassani) prende contatti con gli ultimi esponenti clandestini del vecchio socialismo ferrarese; mentre nel Giardino, sempre come Bassani, gioca, e bene, a tennis, all'esclusivo circolo della palazzina di Marfisa ribattezzato "Eleonora d'Este", finché ne viene praticamente escluso all'epoca delle leggi razziali e viene, IN compenso, invitato da Micòl nel campo privato dei Finzi Contini.

D'altro canto, e a differenza sia di Bassani uomo sia del personaggio in cui più direttamente si ritrae, il Bruno Lattes che vediamo, nel dopoguerra, alla Certosa in occasione dei funerali (laici) di Clelia Trotti, guarda con ironico distacco, privo della consueta pietas bassaniana, il vecchio mondo socialista e ferrarese che in quell'occasione celebra i suoi patetici fasti; ricorda persino "come eterno vaneggiamento da reclusa" le speranze di rinnovamento civile della povera Clelia nella sua tana di via Fondobanchetto; e al finale, almeno nell'edizione che al momento ho davanti agli occhi, viene liquidato bruscamente e punitivamente, con una brusca e insolita inversione, sia pure ipotetica, dal punto di vista narrativo: "un giorno forse lei avrebbe capito chi era Bruno Lattes...".

 

Giorgio Bassani con Claude Gallimard.Ecco, io ancora non l'ho capito. Non dimentichiamo che, all'inizio di Clelia, Bruno Lattes è provvisoriamente tornato dall'America, dall'università in cui sta facendo la sua brava carriera, mentre i suoi genitori sono stati entrambi deportati e uccisi dai nazisti: "e lui? Lui, al contrario, da Ferrara era sempre scappato. Se ne era allontanato al momento giusto (...) col guadagno, a parte quello di aver salvato la pelle, di trovarsi ormai avviato verso una dignitosa, tranquilla carriera universitaria (non era ancora che un incaricato, si intende, un semplice Lecturer IN Italian, ma presto sarebbe stato assunto IN pianta stabile, cosa che IN seguito gli avrebbe permesso... di ottenere la sospiratissima cittadinanza americana...)".

Il sarcasmo è palese: e andrà ricordato che, a differenza dei signori Lattes, i genitori di Giorgio si erano invece salvati, non solo: Bassani si arrabbiava moltissimo per le modifiche che Pirro e De Sica avevano effettuato nella sceneggiatura cinematografica del Giardino e arrivava a pretendere per vie legali che il film risultasse "liberamente adattato da..." proprio perché il Giorgio del film (Lino Capolicchio) se ne andava tranquillamente, mentre suo padre (Romolo Valli) veniva arrestato e avviato a un viaggio senza ritorno.

D'altra parte, la riapparizione di Bruno Lattes davanti alla porta di casa Finzi Contini, insieme al narratore (che, si chiarisce, lo conosce appena: non sono mai stati veramente amici) e a pochi altri invitati, è una sorta di imbarazzato shock of recognition, non foss'altro per "l'inevitabile sguardo di ebraica connivenza" che i due si scambiano. Si ripensa a certi momenti, narrativi o cinematografici, in cui un personaggio incontra il suo doppio, come Henry Fonda ingiustamente accusato di furto quando incontra il vero colpevole che gli somiglia come una goccia d'acqua nel film di Hitchcock Il ladro (e a Bassani piaceva molto Hitchcock, IN particolare La finestra sul cortile, che trovava singolarmente simile a Una notte del '43).

"Alto, secco, di carnagione scura", sempre nervoso e scattante, Bruno Lattes non somiglia dunque al narratore del Giardino, fiero dei suoi occhi celesti che piacciono a Micòl. Eppure Bassani sentirà il bisogno di richiamarlo in vita, in un tardo racconto intitolato Altre notizie su Bruno Lattes, nel quale lo ripresenta, ancora una volta, in un cimitero; e gli fa rievocare una sua infelice love story con una bella ragazza cattolica della migliore borghesia ferrarese, un'"Adriana Trentini" già apparsa nel Giardino: una storia balneare che potrebbe essere la parodia degradata di altre storie d'amore più o meno contrastato vissute in altri casi e altri testi dal narratore.

E in quell'occasione gli presta anche una mamma "cattolicissima", che non è certo la meravigliosa signora Dora, ma, vedi caso, si chiama Marchi: come la nonna che allo scrittore esordiente di Una città di pianura fornisce un nom de plume utilissimo ad aggirare i divieti delle leggi razziali.

Vorrà dire che la self-inscription procede su due binari paralleli e opposti, verso un rispecchiamento quasi ufficiale, e un'immagine, esorcizzata, di quel che l'autore assolutamente non vuole essere ma potrebbe essere stato?

C'è stato un momento, nella mia vita di lettore di Bassani, in cui ho temuto di essere un Bruno Lattes numero due, un Lattes meno melodrammatico e pour les pauvres. Paradossalmente si è trattato del momento, di grande commozione, in cui mi sono trovato promosso a lettore in fabula: il 25 dicembre del 1969, quando sul Corriere della Sera appariva, con il titolo Fiaba, la storia dell'incontro fra mia madre e mio padre, poi ripubblicata anche nell'Odore del fieno e poi all'interno del vero e proprio Romanzo di Ferrara (in una delle tante edizioni si è anche intitolata La necessità è un velo di Dio, ma non mi pare abbia mai subito modifiche o riscritture).

Forse qualcuno se ne ricorderà: è la storia di una signorina di Ferrara, né bella né brutta, "passabile insomma", che a trent'anni non si era ancora sposata, ma poi decideva, e solo per il desiderio di avere un figlio, di unirsi a un giovane profugo russo dagli occhi azzurri (memore delle proteste di certe famiglie ferraresi all'epoca del Giardino, Bassani temeva un poco le reazioni di mia madre, che invece era molto contenta del racconto e si lamentava, moderatamente, solo perché non le piaceva il nome con cui l'amico Giorgio l'aveva, si fa per dire, ribattezzata, Egle Levi-Minzi).

Alla fine del racconto, in una comunità decimata dalle deportazioni e dal genocidio - che ha travolto anche l'intera famiglia dei profughi russi, i Rotstein - il bambino nato da questo matrimonio, e quasi miracolosamente sopravvissuto, appare come una sorta di simbolo di continuità e sopravvivenza.

Troppo onore, pensavo lusingato ma imbarazzato: certo, dato che nel 1943 avevo sette anni, non potevo certo rimproverarmi, come Bassani in certo senso rimproverava a Bruno Lattes, di avere abbandonato mio padre catturato dai fascisti nella famosa notte del '43 e poi inviato a Auschwitz dalle prigioni di via Piangipane; ma era pur vero che, a differenza del bambino del racconto, non vivevo più "con la madre, solo insieme con lei, per sempre, nella grande casa di Ferrara", quasi una personificazione di quei figli sopravvissuti che più tardi sarebbero stati classificati da psicanalisti e studiosi come "candele della memoria".

Dopo tutto, anch'io (e in parte per merito dell'autore della Fiaba) ero stato in America, proprio come Lattes, e come Lecturer in Italian; e invece di vivere "solo con mia madre" come custode di un sacrario nella grande casa di via Mazzini (che non esisteva più), mi ero sposato e vivevo a Firenze, e avevo un bambino (nato un paio di mesi prima della pubblicazione del racconto: che Fiaba fosse, per me, una sorta di lusinghiero regalo per certi aspetti ironicamente rovesciato?).

A Bassani, a parte il mio grazie, non ho mai detto niente, pensando che dopo tutto non mi chiamavo Rotstein e non avevo, come padre e figlio nel racconto, "celesti occhi obliqui, fiammeggianti". E a questo punto, a costo di cadere nel privato più di quanto, vergognosamente, non abbia già fatto, mi corre l'obbligo di dire che quel bambino nato a Firenze poco prima dell'uscita del racconto si fa chiamare Rotstein, sulla scena, in uno spettacolo ispirato alla storia del suo bisnonno, profugo russo divenuto cantore della sinagoga di Ferrara e poi deportato con moglie, figli e nipoti (tranne il sottoscritto) ad Auschwitz.

Vorrà dire che il gioco dei doppi, non solo fittizi e letterari, può continuare all'infinito, come nello Zelig di Woody Allen; e che tutti noi - non solo i poeti come Giorgio Bassani - possiamo sentire il bisogno di creare una sorta di immagine esorcistica di noi stessi, un Bruno Lattes che per certi aspetti ci somiglia e per altri no? Certo. i poeti lo sanno fare in modo più suggestivo: ed è anche per questo che li rileggiamo, e non ci abbandonano mai.