La città e la memoria

Scritto da  Gianni Venturi

Giorgio Bassani al Tennis Club Marfisa.Di Bassani, di Ferrara e dell'arte.

Ho conosciuto Giorgio Bassani non a Ferrara ma a Firenze (un segno forse di una comunanza ferrarese rivisitata in altri luoghi e in altre circostanze che non fossero quelle della patria lasciata per amarla meglio). Quali luoghi e circostanze, poi: le aule che davano sull'Arno del convento di Santa Trinità - con le ombre di Elisabeth e Robert Browning che apparivano tra le colonne del chiostro - e là, mentre la vista fuggiva verso le colline di Bellosguardo divagando sulla dolcezza ruskiniana delle "pietre di Firenze", la voce melodiosa dalle scempiature ferraresi accentuata dalla leggera balbuzie ci parlava di Micòl, di Clelia Trotti, di una città di pianura, sotto lo sguardo attento e partecipe dell'amico di una vita, Claudio Varese, ospite e maestro di una schiera di allievi che conoscevano la cultura estense, non solo da Ariosto e da Tasso, ma anche dalla viva voce del cantore di Ferrara, dei suoi giardini, della sua vita inimitabile.


Erano gli anni Settanta; eravamo tutti usciti dal ciclone della contestazione studentesca; Firenze ne era stata uno degli epicentri. Eppure quel signore dagli occhi azzurri, con il tratto del gran borghese sapeva dire e confermare che anche la tragedia poteva essere evocata nella calma serenità del dominio della scrittura; poteva cioè trasformarsi in classicità.

Questo mi pare il punto fondamentale a cui ben poco si è pensato nel momento esaltante dei riconoscimenti mondiali o nell'appartata rinuncia a scrivere (la più grande tra le sciagure che possa colpire un vero scrittore) o nella serenità con cui si accetta un destino.

Bassani ha cercato attraverso Ferrara di sconfiggere il transeunte e, come direbbe Montale, i "disguidi del possibile": Ferrara più che città diventa un modo di essere; un'interpretazione del mondo.

Giorgio Bassani nel giardino della sua casa ferrarese di via Cisterna del Follo 1, con Hilde Marie Stucker.Dal momento che un giovane scrittore esce dalle mura per cercare il mondo, quel mondo gli si rappresenta sotto l'aspetto di una città, Ferrara:

Ciò che caratterizza un personaggio in quanto tale, è sempre o quasi sempre, il non sapere di essere un personaggio. D'altra parte il contrasto tra l'enormità delle vicende di cui scrivo e la piccolezza della mia Ferrara (una cittadina di provincia, uguale o quasi uguale a tante altre), mi dà una certa garanzia di venire ascoltato, creduto. Sì. Proprio il consistere del minimo, del pressoché inesistente, accanto al sublime, mi fa sperare d'avere scritto dei libri che, in qualche modo, abbiano a che fare con la vita, con la vita nella sua realtà, e quindi con la poesia (1).

Chi voglia capire dunque l'operazione poetica di Giorgio Bassani deve non tanto interrogare le corrispondenze tra la città reale - una città che nelle prime prove dello scrittore veniva nominata F. per paura di peccare di provincialismo - e quella che Bassani ha saputo creare, quanto come quella città ha saputo diventare metafora, mito, prospettiva del mondo. E per fare questo prima bisogna perderla la città, poi riconquistarla a forza di memoria poetica. Chi cercasse (e sono tanti nei personaggi di Bassani) i fantasmi della Ferrara d'antan, i compagni, gli amici, gli amori, resterebbe deluso perché la Ferrara bassaniana è il prodotto di un'operazione difficilissima quale solo i grandi scrittori sanno - e non sempre - condurre a termine: indagare le misteriose ragioni della vita, o meglio della realtà attraverso uno strumento d'indagine, la scrittura, che apparentemente sembrerebbe contraddire alle leggi della scientificità (poiché quest'ultima, secondo alcuni princìpi volgari, è garante della verità e della realtà).

Giorgio Bassani ha inteso, e lo scrive spesso, che a capire il perché della più grande tragedia del Novecento (non possiamo ormai più dire del nostro secolo) non basta né la storia né tantomeno la cronaca o la prova giuridica, occorre la verità del poeta che è la più alta, la più nobile, la più vera. Occorre perciò che il paragone sia condotto elevando un microcosmo - la piccola città di Ferrara - a metafora e a specchio del mondo e di una atrocità connessa con lo stesso vivere, la morte.

Ce n'è voluta di strada, e di battaglie, e di incontri. Il giovane Bassani, non dimentichiamolo, tra il 1934 e il 1943 frequenta un mondo che della provincia ha fatto l'oggetto di una nuova letteratura, di una nuova arte. Bassani riprende il cammino che dieci anni prima aveva portato De Pisis lontano dalle stanze metafisiche del palazzo di via Montebello dove una metafora di Ferrara abitava con il pittore, a Roma, a Parigi, a Milano. Per Bassani sarà Bologna poi, inevitabilmente, Firenze, perché solo lì con quelle frequentazioni, con quelle amicizie, nell'attesa di quella montaliana Primavera hitleriana che porta sul corso fiorentino a volo un messo infernale/ tra un alalà di scherani, si conclude la vicenda di una ricerca e si apre invece il tempo della testimonianza.

Ferrara è rivisitata, scritta e descritta dunque riconosciuta come personaggio solo dopo che il giovane scrittore ha compiuto la sua flaubertiana educazione sentimentale tra i grandi scrittori, pittori, artisti del suo tempo. Gli stessi intellettuali che furono i compagni della giovinezza, i Caretti, i Varese, i Dessì, lasciano Ferrara per ritrovarla più integra, più complessa e più problematica nei centri della cultura militante, Firenze, Roma; (altra cosa il poeta Antonio Rinaldi che lo segue nell'impervia strada della Resistenza assieme a Carlo Ludovico Ragghianti). Arrivare, dunque, a conquistare una patria che non è più la piccola città di provincia ma la sfera di cristallo in cui si riflettono le vicende del mondo.

Se la Ferrara storica ha dato la famiglia, i luoghi, le persone di una vicenda privata (non escludendo però coloro che la amarono nella sua complessa vicenda in cui si annullano le differenze tra ebraicità e retaggio culturale: Beppe Minerbi, soprattutto, ma anche Paolo Ravenna, Guido Fink o Gian Franco Rossi), la Ferrara dei racconti e dei romanzi e delle poesie bassaniane passa attraverso la frequentazione di Roberto Longhi, dei fratelli Arcangeli, di Morandi, Bertolucci, Bacchelli e poi di Montale, di Gadda, e degli altri scrittori impegnati nelle discussioni alle "Giubbe Rosse" o al Vieusseux, fino poi nel dopoguerra, quando Ferrara è già oggetto della narrazione, a Roma con Pasolini, Moravia, Soldati, e tutta la cultura che conta, fino alla presidenza di Italia Nostra, al lavoro in RAI, alla militanza politica, al successo mondiale, alla scoperta di Tomasi di Lampedusa e del Gattopardo, agli amori celebri e tempestosi, alla sua figura pubblica.


Giorgio Bassani in una foto di classe nel 1931.Certo, la ferita del rifiuto agisce ancora come immedicabile nella dura e privata querelle di Gli ex fascistoni di Ferrara (2), quando coloro che un tempo gli voltarono le spalle esigono, nell'amara ironia del poeta, di conoscere, portare a pranzo, sentirsi "corrazziali" con lo scrittore alla moda e a loro, ai compagni, forse amici della giovinezza, il celebre Bassani risponde con un unico fulminante e giudicante verso: Prima/ cari/ moriamo.

Eppure, la rivisitazione di Ferrara in Rolls Royce (3) avviene attraverso il soffio lussuoso di una macchina simbolo che esclude la compartecipazione diretta del poeta ormai morto: Ferrara è un sogno che si contempla dai vetri schermati di un oggetto, metafora dello straniamento che la scrittura, la poesia ha portato nella "cronaca familiare" della piccola città di pianura.

Mi fanno un po' ridere coloro i quali mi accusano di avere parlato di cose, nei miei libri, che non hanno che fare con la realtà: vi assicuro che il passaggio dalla F. delle mie origini letterarie alla Ferrara in tutte lettere dei miei anni maturi, non ha potuto realizzarsi che lentissimamente, e vi garantisco che mi è costato sudore e lacrime (4).

Quel lavoro per cui Ferrara, finalmente oggetto totale della narrazione, si accampa e diventa la protagonista assoluta del romanzo bassaniano è testimoniata nella stesura definitiva del Romanzo di Ferrara, 1980, da uno scritto contenuto nell'ultima parte dell'Odore del fieno (1972), a sua volta libro (o parte) sesto dell'ultima e definitiva sistemazione di tutta l'opera narrativa di Bassani.

In Laggiù, in fondo al corridoio, Ferrara diventa nel fare artistico l'oggetto della memoria, quella memoria che strappa al nulla della morte, la vita, la realtà. Io credo, ma è un'impressione che Bassani forse non condividerebbe, che la scelta di Ferrara come luogo della memoria e nello stesso tempo come spazio unificante di un'intera e totalizzante vicenda umana si è lentamente confermata nella mente poetante non da subito, non dal principio, ma solo nella verifica e nel confronto con la pagina scritta.


Giorgio Bassani sul Delta del Po con, da sinistra, Claude Gallimard, l'editore francese; Helen Wolff, editor di Harcourt Brace Jovanovich di New York; un'amica; e William Weaver, il traduttore delle sue opere in inglese.C'è un brano assai indicativo di questa scelta e di questa propensione (quando cioè la vicenda della storia si acquieta nel calmo rigore e nella limpidezza dello specchio della scrittura) in cui Bassani parlando di Bacchelli oggettivizza la stessa provenienza sociale:

Bello, autentico il rapporto fra Bacchelli scrittore e la classe sociale donde proviene: l'aristocrazia, o meglio la grande borghesia agraria del primo Novecento bolognese ed emiliana. È lo stesso ambiente, in fondo da cui sono uscito io (5).

Eppure quella comunanza di destino borghese si divarica nella scelta, perché Bacchelli, come tutti i grandi scrittori non ebrei, può anche acconsentire a un'idea liberale che tollerava il fascismo, come del resto i grandi borghesi ebrei. Qui sta la differenza: accorgersi cioè che l'estraniarsi nel mondo come Ermanno o Alberto Finzi Contini, tollerare l'ideologia fascista era una scelta di morte. Giorgio Bassani, come Micòl, invece, sceglie la vita attraverso la morte e fieramente può affermare, come Flaubert nel processo al suo scandaloso romanzo, "Madame Bovary  c'est moi". "Io sono Micòl, Micòl è una parte di me" scriverà innumerevoli volte il Bassani del Romanzo di Ferrara e come la protagonista del Giardino anche il suo autore può affidare nelle pagine conclusive del romanzo al dolce, al pio passato il senso della ferita mai chiusa, ma nello stesso tempo l'affermazione della vita contro lo scandalo che dura da diecimila anni direbbe Elsa Morante di cui l'olocausto è stato il mostruoso risultato:

Certo è che quasi presaga della sua prossima fine, sua e di tutti i suoi, Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei del suo futuro democratico e sociale non gliene importava un fico, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga "le vierge, le vivace, le bel aujourd'hui" e il passato, ancora di più, "il caro, il dolce, il pio passato'' (6).

Se si rileggono le altissime pagine del prologo de Il Giardino dei Finzi Contini o quelle struggenti della scelta finale di Micòl possiamo ben capire che Ferrara si affida non più alla memoria poetante dell'autore, ma diventa parte integrante dell'io come l'assoluto spazio-temporale di un narratore che ha saputo ancora una volta trarre dalla provincia, reinventandola, il senso epifanico di una scrittura che fa uscire dalle mura di Ferrara personaggi, situazioni, cose, per affidarli al senso e al valore della contemporaneità.


Giorgio Bassani al tennis Club Marfisa con Portia Prebys, Claudio e Fiammetta Varese, e Gianni Venturi.Due aspetti, dunque, di Ferrara che Bassani non ha voluto né potuto fondere perché sono complementari: da una parte la piccola città di provincia che vive ancora di un retaggio culturale altissimo e affidata nel tempo della tragedia storica a una classe sociale a cui l'autore appartiene; dall'altra, la Ferrara personaggio del romanzo totale in cui la storia è vista come in uno specchio che riflette la vita e la ripropone non nella sua ambiguità, angustia mentale e morale, nel suo provincialismo, ma attraverso la memoria giudicante (non quella involontaria proustiana) che eleva le piccole e grandi cronache a emblema, a giudizio e talvolta a pietas, secondo un modello altissimo e amatissimo che fa della Firenze di Dante, della ferita dell'esilio, il modo e il mezzo di attingere lo sguardo sereno della classicità.

La disperazione, la vocazione alla morte dell'Edgardo Limentani de L'airone, il romanzo forse più complesso e diverso di Bassani, rappresentano la constatazione che, nonostante tutto, la ferita non può essere rimarginata. Quel protagonista, agrario, raffinato borghese, cultore della morte come rito della sua classe, la caccia, non sa se può riconoscersi in un giudizio etico e insegue dunque il vagheggiamento di un nulla provocato dalla morte, provocato dalla noia, da ciò che un tempo si chiamava ennui, la noia esistenziale. Ecco perché Edgardo non è una proiezione di Bassani, ma il giudizio dello scrittore sulla Ferrara storica. Le mura non salvano dalla bufera della storia, solo l'arte può riportare il soffio della vita nella città murata attraverso la compassione e il classico distacco della memoria poetante.

Note

1. In risposta (VI), in Giorgio Bassani, Opere, a cura di Roberto Cotroneo, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1988, p. 1326. Le citazioni nel testo sono tratte da tale edizione.
2. In Epitaffio., pp. 1417-18.
3. Ivi, pp. 1430-32.
4. Intervento di Bassani negli atti del convegno La cultura ferrarese fra le due guerre. Dalla scuola Metafisica a "Ossessione", a cura di W. Moretti, Cappelli, Bologna, 1980, p. 216.
5. Qualche appunto per una tavola rotonda, p. 1307.
6. Il giardino dei Finzi Contini, p. 578.