Quattro mesi dopo, Ferrara entra a far parte della Confederazione Cispadana e, nel maggio 1797, della Repubblica cisalpina. Il secondo arbalton non tarda però a venire: nel maggio del 1799 gli austriaci occupano Ferrara e ripristinano l'antico regime. Ma la vittoria napoleonica di Marengo, nel gennaio 1801, riporterà Ferrara nella risorta Repubblica Cisalpina.
E ora ritorniamo al 1797, alla Ferrara repubblicana e, seguendo un gusto attuale, cerchiamo di individuare alcuni "ferraresi dell'anno", vittoriosi o vittime, ovvero l'una e l'altra cosa, comunque coerenti con i propri principi e ideali, e rifuggenti dai doppi giochi. Grande rilievo, rispetto ad altri personaggi, ha indubbiamente la figura del cardinale Alessandro Mattei, arcivescovo a Ferrara per trent'anni, dal 1777 al 1807, un lungo periodo di sconvolgimenti per l'Europa, l'Italia e la Chiesa cattolica. Spettò a lui, il 19 febbraio 1797, per incarico di papa Pio VI, sottoscrivere il Trattato di Tolentino che sancì, tra l'altro, la cessione ai francesi di alcune Legazioni, tra le quali quella di Ferrara. Il Mattei, uomo di grande zelo apostolico, dopo vent'anni di tranquillo esercizio della sua missione pastorale, si trovò ad assistere pressoché impotente alla rovina del potere temporale, alla perdita delle Legazioni, alla distruzione di notevole parte del patrimonio chiesastico ed artistico, ai duri provvedimenti contro il clero.
I suoi frequenti, necessari rapporti con la Santa Sede IN tali angosciosi momenti, i suoi incontri con Napoleone e le autorità francesi, vennero giudicati dai suoi avversari manifestazioni di tortuosità, così come la politica papale dell'epoca.
Ma non si può non pensare che uomini come il Mattei, che certo non amarono le idee e le istituzioni imposte dai francesi, dovettero muoversi con abilità, oltre che con coraggio, per salvare il salvabile del culto e del gregge. Indubbiamente sul Mattei pesarono molto le alterne vicende di quegli anni; basti ricordare i subiti confinamenti e la prigionia condivisa con Pio VII. Camillo Bevilacqua, appartenente a una delle più antiche, nobili e ricche famiglie ferraresi, attivo promotore di iniziative industriali nel ferrarese - peraltro presto abbandonate, è un personaggio sul quale pesarono accuse quanto meno di ambiguità, anche se era notoriamente avversario delle novità democratiche e, quindi, coerentemente fedele al Mattei.
Alla caduta del governo pontificio, venne chiamato, nell'ottobre 1796, dal Commissario generale francese Francesco Saliceti a far parte dell'Amministrazione centrale. Ma il Bevilacqua, probabilmente per non volere assumere peso e responsabilità della nomina, si dimise subito. Accettò invece di far parte dei trenta ferraresi che il 16 ottobre 1796, a Modena, avrebbero dovuto gettare le basi della Confederazione. Dopo due mesi, a Milano, incontrò Napoleone Bonaparte. Qualcosa non piacque a quest'ultimo, sicché, come scrisse il Frizzi, Bevilacqua «va e torna, ma con l'arresto».
Il Bevilacqua ritornerà in auge per non molto quando, nel maggio 1799, il generale austriaco Klenau gli affiderà la presidenza della Regia Cesarea Reggenza, e cioè della municipalità. Il Frizzi osservò, con una garbata espressione, che la scelta dei componenti della Reggenza «non fu troppo felice». Commentò, invece, l'Antolini che «non poteva non essere così; magistrato (il Bevilacqua) unicamente politico e partigiano, non era stato scelto per amministrare bene, ma solamente per premiare e punire.»
«Capi di un club diabolico / d'eretici assassini / tra i quali si rammemora / il cittadin Boldrini. / Tra gli altri commissari / fu questo il primitivo / dell'inaudito e celebre / potere esecutivo. / Spogliar altare e templi, / distruggere conventi, / il sacro culto svellere / furon li suoi portenti. / Lo dica l'arcivescovo / dicanlo i preti sui / s'ebber mai più barbaro / persecutor di lui». Così tre quartine di una lunghissima poesia anonima riportata dall'Antolini affidano ai posteri la memoria di Giovanni Battista Boldrini, esponente del gruppo rivoluzionario. Ferrarese, avvocato, costui fu giudicato il più convinto ed energico sostenitore dei tempi nuovi, ardente alle soglie del fanatismo. Il Saliceti lo nominò presidente dell'Amministrazione centrale. Partecipò ai congressi di Modena e Reggio Emilia e, dal 1797 al 1798, fu commissario prima del Dipartimento del Basso Po, poi del Governo presso la Municipalità di Ferrara.
Gli austriaci lo arrestarono nel maggio 1799 e lo rinchiusero nella fortezza di Legnago per oltre un anno, poi lo liberarono. Occupò cariche anche durante la Repubblica Cisalpina e il Regno d'Italia.
La caduta di Napoleone e del regno italico troncarono la sua vita pubblica; solo durante il breve periodo dei moti del 1831 ritornò all'aspra lotta civile e politica. (Mi si consenta un salto di un secolo per ricordare l'ultimo Boldrini discendente del nostro: Giovanni Boldrini, ingegnere civile, studioso e appassionato sostenitore della navigazione fluviale padana, socio della nostra Cassa di Risparmio, morto ottantanovenne nel 1983).
Il quarto personaggio al quale possiamo attribuire il titolo di "ferrarese dell'anno" è Giuseppe Compagnoni, lughese, ex sacerdote, giornalista, scrittore eclettico.
Ha grande parte nella storia del nostro diritto pubblico, dacché nel 1797 pubblicò gli Elementi di diritto costituzionale democratico, sui quali tenne lezioni come docente dell'università ferrarese. Fu segretario di Boldrini (che definì «uomo di severi principi, di fermo carattere») quando quest'ultimo era a capo del Dipartimento del Basso Po. Fuggì in Francia durante l'occupazione austriaca del 1799 e ritornò IN Italia per ricoprire incarichi nella Repubblica e nel Regno d'Italia.
Come s'è ricordato in occasione delle recenti manifestazioni per il secondo centenario del Tricolore, fu Compagnoni, il 7 gennaio 1797, a far votare al Congresso di Reggio Emilia l'adozione del Tricolore come bandiera nazionale.
Preziose sono le sue Memorie autobiografiche, pubblicate dai Treves settant'anni fa e ormai introvabili. Il nostro vi racconta la sua vita, dalla prima infanzia sino alla caduta del Regno d'Italia. E quando la «mano stanca» gli farà interrompere la storia, così concluderà serenamente il manoscritto: «Ridotto io a vita privata, mi dimenticai di tutto il passato e mi abbandonai alle dolcezze che presta la conversazione degli amici e l'occupazione dello studio [...]».