Allora, tra manovre politiche e collazione di pingui benefici ecclesiastici, incominciò a Roma e a Tivoli il gran de apparato di munificenza che rese famoso il nome degli Estensi nella capitale della cristianità.

Nello stesso tempo si applicava agli studi: a Ferrara, sotto la guida di Celio Calcagnini e Fulvio Pellegrino Morato; poi, all'università Padova, si preparò alla vita politica ed ecclesiastica alla quale era destinato. Alla disfatta francese a Pavia, Alfonso I, dopo aver occupato Reggio e Modena, con l'aiuto di Carlo V suo alleato contro il vinto Francesco I e il Papa, cambiò direzione, aderendo alla lega di Cognac contro l'imperatore. Con questo il duca cercava di ottenere per il suo primogenito la mano di Renata di Valois e, per il cadetto, la porpora. Il re di Francia lo accontentò, ma per quasi un decennio Roma fece attendere il cardinalato conferitogli soltanto nel 1538 su esplicita richiesta di Francesco I.
Nel frattempo, l'Estense aveva accumulato, nel suo proficuo soggiorno in Francia, una serie di benefici abbaziali che gli rendevano varie migliaia di scudi d'oro, senza dire della mensa arcivescovile di Lione da lui ottenuta nel 1539. Benvenuto Cellini, in quell'anno, tornò a sperimentare la benevolenza del Cardinale, che già lo aveva ospitato a Parigi. Il grande artista, accusato del furto di gioielli e detenuto in carcere con il terrore di finire avvelenato, ottenne la liberazione grazie all'intervento del porporato ferrarese presso Paolo III.
Ed ecco come, secondo il Cellini, si svolsero i fatti: 'Così passando pochi giorni innanzi-scrive l'artista nella sua famosa (e un po' fantasiosa) autobiografia- comparse a Roma il cardinale di Ferrara, il quale andando a fare reverentia al papa, il papa lo trattene tanto che venne l'ora della cena. E perché il papa era valentissimo uomo, volse avere agio a ragionare con il cardinale. E perché pasteggiarare vien detto e di quelle cose che fuora di tal atto talvolta non si dirieno, per modo che essendo quel gran re Francesco e in ogni cosa sua liberalissimo, e il cardinale, che sapeva bene il gusto del re, ancora lui appieno compiacque al papa, molto più di quel che il papa non si immaginava di modo che il papa era venuto in tanta letizia.'
Approfittando delle favorevoli disposizioni di Paolo III, Ippolito d'Este avanzò la richiesta, a nome di Francesco I, di liberare il Cellini. E il papa, 'con gran risa', diede il suo assenso dicendo: 'Ora voglio che lo meniate a casa.' E così fu. Scrive ancora Benvenuto: che subito 'venne il mandato del papa insieme con due gentilhuomini del ditto cardinale di Ferrara, et alle quattro hore di notte passate mi menorno dinanzi al cardinale, il quale mi fece inestimabile accoglienza: e quivi bene alloggiato restai a godere.'
Il 27 aprile 1548, dopo la morte del cardinale Trivulzio, 'Protettore della Corona francese', la scelta cadde su Ippolito e, di conseguenza, egli fu obbligato a trasferirsi definitivamente a Roma, dove prese dimora a Monte Giordano in palazzo Orsini.
Come se ciò non bastasse, stipulò un contratto enfiteutico garantendosi l'utile dominio della vigna Carafa al Quirinale. La villa e i giardini dove abbastanza a lungo vissero i cardinali Ippolito e Luigi, rappresentano un nuovo avanzatissimo stadio di geniale trasformazione, anche dal punto di vista urbanistico, dell'intero rione di Montecavallo, alla cui sommità sarebbe sorto, incorporando l'opera degli Estensi, il palazzo dei papi e poi dei capi dello stato italiano.
Dopo un lungo periodo di abbandono in cui si trovava l'intera zona, 'suscitando fantasmi a malapena esorcizzati da chiese costruite sulle rovine di monumenti antichi', la 'città morta' riprendeva a vivere mentre, come scriveva Ferdinando Gregorovius, 'gli eroi di marmo e i cittadini del passato rovesciarono i loro sepolcri per essere ammirati come unici esempi di genuina virtù civile'.

E si realizzarono un ninfeo, giardini, grotte, boschetti, mentre artisti come Girolamo da Carpi venivano impiegati nel decorare il palazzo e, ricorda il Vasari, 'negli acconcimi di legname veramente regii di detto giardino, nel che si portò tanto bene che ne restò ognuno stupefatto'. Non mancavano altre opere d'arte come 'le più belle e ricche statue antiche che sieno in Roma'.
Dalla villa del Quirinale e più ancora da quella di Tivoli, la cittadina di cui Giulio III aveva fatto governatore il cardinale Ippolito, quest'ultimo trasse cospicuo alimento per le collezioni artistiche e archeologiche, programmando scavi in luoghi adatti.
Per tutto il Cinquecento seguitano ad affluire da Roma e Tivoli reperti archeologici di grande valore.
Dopo aver scoperto a Tivoli una statua d'Ercole, il cardinale ne scriveva al duca dicendosi disposto a mandargliela 'di bonissimo animo', dolente soltanto che essa fosse 'tutta rotta et che ci manchi grande parte de' membri, e che, egli prosegue, 'non è quale io desidererei, né quale ella si pensa fosse, perciochè non so vedere che abbia altro del Hercole, se non in quanto è giudicato da questi che se ne intendono che possa essere un Hercole giovane'.
E pensava di farla restaurare da Giovanni Battista della Porta, che lo servì anche per il restauro del colosso di Tiberio. Venne poi alla luce 'un Hercole integro, qual non manca si (e) no il naso.'
Da Roma l'oratore estense Giulio Grandi e suo nipote Alessandro, insieme a Pirro Ligorio procuravano al Museo Atestiano di Ferrara e alla biblioteca ducale statue di gran valore come il busto di Lucio Vero, già del cardinale di Carpi e le quattordici teste di filosofi, destinate, con altre di letterati, a coronare gli armadi della libreria. Il possesso di Tivoli era stato una sorta di ricompensa per il sostegno offerto da Ippolito alla elezione di Giulio III.
L'Estense fece l'ingresso trionfale il 9 settembre 1550, andandosi a stabilire nell'antico monastero benedettino, allora occupato dai francescani. Non tardò a realizzare il suo progetto, ma prima acquistò vari terreni ed edifici, incorporando nel palazzo la chiesa di Santa Maria Maggiore che tuttora delimita il quarto lato del cortile e quella di San Pietro che rende più stretta la parte inferiore del giardino.
Si utilizzarono anche le antiche strutture murarie, causando irregolarità nell'andamento planimetrico dell'edificio nuovo, al quale però gli avancorpi danno un maggiore risalto. I saloni si aprono sul giardino, mentre sul retro un criptoportico di felice memoria adrianea fu decorato a mosaico e stucco.

Le virtù impersonate da otto busti di filosofi greci vennero decorate da allievi di Federico Zuccari, mentre Livio Agresti ornò la cappella con stucchi e figure.
Si attribuisce allo Zuccari la decorazione della sala di rappresentanza nelle cui volte è dipinto il convito degli dei.
Girolamo Muziano e allievi espressero con efficacia un simbolismo geografico affrescando, nel riquadro sovrastante la fontana, l'antica Tivoli con gli alberi, le cascate d'acqua, il tempietto della Sibilla e inoltre le ville cardinalizie del Quirinale e della stessa Tivoli con le fontane dell'Organo e dell'Ovato.
L'aquila bianca dal trasparente significato protegge in queste sale le mele d'oro del mitico giardino, mal custodite dal drago. L'impresa di Ippolito d'Este era infatti 'ab insomni non custodita dracone'.

Il giardino, il palazzo e le acque costituivano la villa e ne accrebbero la fama, tanto che l'imperatore Massimiliano 'volse averne un disegno come di cosa nella sua sorte perfettissima et da paragonare a qual si voglia delle antiche'.
Così scriveva Stefano Duperac alla regina di Francia, Caterina de' Medici. Fontane, boschetti come a Montecarlo, labirinti, orti dei 'semplici', cioè di piante medicinali, tutti debitori al genio di artisti e all'intelligenza munifica del cardinale, rendevano quel che si dice 'amenissimo' il sito, dove si susseguono la Fontana dell'Alicorno, il padiglione con le quattro cannelle, le fontane di Leda, di Tetide, di Flora, di Pegaso, di Bacco, di Diana, di Pallade, degli Uccelli che stanno 'sopra arbuscelli di rame, i quali per forza dell'acqua rappresentano le voci loro naturali', come l'ammirava Antonio Lafrery, appena zittite dalla apparizione della civetta.
E poi altri getti d'acqua, come la gran fontana in cima alla quale si collocarono i tre colossi della Sibilla Albunea e dei fiumi Ercolano e Aniene, mentre dalla scala di Travertino usciva un capo d'acqua a forma di bollori, e dalla fontana dei Draghi un capo d'acqua dall'altissimo zampillo che strepitava come colpi d'artiglieria.
La fontana della dea natura aveva un organo il quale mirabile artificio a forza d'acqua suona da se stesso ogni madrigale o mottetto che si voglia a quattro o cinque voci'.
Infine, l'Oceano veniva rappresentato dalla fontana di Nettuno che gareggiava con quelle di Antinoe, di Venere, di Tritone di Prosperina, dei Bollori, di Tivoli e dell'Ovato con il grande salto d'acqua e le cento fontane (in realtà solo ventidue) a forma di barca alternate a obelischi, aquile e gigli e la Rometta raffigurante Roma e Tivoli con Tevere e ancora l'Aniene.
Grotte, statue, colonne tortili come quelle di San Pietro, terracotte invetriate e altre meraviglie si offrivano alla vista.
Quanto rimane di tutto ciò, salvato dagli ultimi restauri, dà soltanto una idea incompleta del grande sogno realizzato dal cardinale.
Con lui, spirato il 2 dicembre 1572 a Roma, e sepolto nella cattedrale di Tivoli, finì la grande stagione. Poco vi aggiunsero gli eredi, dal cardinale Luigi in poi, ma artisticamente rifiorì quando un principe tedesco, il cardinale Gustavo Adolfo di Hohenlohe Schillingsfürst, ne blandì il risveglio favorendo in quel luogo la geniale ispirazione di Francesco Liszt, suo ospite nella stessa villa, dove Henry James, commosso davanti ai cipressi, tradusse la sua impressione in figura poetica.