Come veniva vissuta dal poeta ferrarese la dipendenza molto stringente del suo lavoro che pure gli era stato assegnato in virtù della sua fama di poeta, e cioè dalla capacità riconosciutagli dal Potere di creare opere che s'innalzavano a canone estetico di un'epoca e davano alla Signoria Estense lustro e consenso ?
Alla base della mia curiosità di questo aspetto dei complicati e spesso ambivalenti rapporti fra cortigianeria e committenza, fra libertà espressiva e controllo programmatico, fra Potere e Cultura, sta il bisogno di capire quanto ancora di quel problema sia aperto in un Paese come l'Italia dove sembra permanere fra Politica e intellettuali un disagio originario e costitutivo, sembrerebbe quasi inguaribile.
Non starò a citare Gramsci per questo aspetto del nostro costume nazionale. Tutti sanno come i chierici della cultura siano stati vissuti prima che da Gramsci, dalla generazione che aveva fatto il Risorgimento, quella di Luigi Settembrini e di Francesco De Sanctis, con un certo malcelato sospetto. Ma torniamo al tema. Della vita privata dell'Ariosto non si sa molto. Negli anni trenta il critico Michele Catalano ne ha scritto, ma ha dovuto lui pure arrendersi sulla soglia di qualcosa di indecifrabile sulla vita di quest'uomo sfuggente, che ha fatto di tutto per seminare la nebbia dietro di sé e sparire nella sua opera, come ammantandosi in una nuvola.

Ecco entrato in campo il personaggio centrale delle mie fantasie sul grande poeta, il cardinale Ippolito. Telefonai allora un giorno a Lanfranco Caretti, il grande critico ferrarese che insegnava a Firenze e che mi era stato largo di consigli, anni prima, quando concludendo gli studi universitari studiavo Saba per la mia tesi di laurea in estetica, a Bologna, con Luciano Anceschi. Mi pare ancora di sentire la sua voce squillante davanti al mio proposito di scrivere il romanzo della vita di Lodovico Ariosto : «Non lo faccia Pazzi, vedrà, non ci riuscirà, rimarrà risucchiato dal Furioso volendo scrivere la vita di quell'uomo ? non ci riuscirà, si perderà nel poema». Il più grande critico moderno dell'Ariosto aveva ragione.
Non riuscii mai a scriverne nemmeno qualche pagina, nemmeno un racconto. Mi arrendevo sempre davanti a un particolare della sua vita di Corte, legato al cardinale Ippolito che continuava a fermentare nella mia fantasia, pur dovendo riconoscere che mi procurava solo una falsa partenza. Forse mi coinvolgeva troppo. Perché ritrovavo nella fredda sordità alla Poesia rivelata da quel particolare qualcosa che continuava ad aleggiare nelle menti degli uomini, cinquecento anni dopo, e non solo nella mia città. E oggi mi pare di dover riprendere ancora quel filo, per mostrare come suggestioni ancora la mia mente.
Sono comunque in bella compagnia, in questa suggestione, se prima di me Sigmund Freud rimase così colpito dall'episodio del cardinale Ippolito d'Este a colloquio col suo poeta, da mettere le sue parole in epigrafe al saggio sulla Gradiva di Jensen, un saggio che cerca di scavare nella genesi di un'opera d'arte, relazionandola all'antica paura che gli uomini d'ordine hanno della fantasia, come fattore destabilizzante.
Dunque l'episodio è questo. L'Ariosto, fra un incarico e l'altro che lo distraeva dai suoi studi poetici, aveva dato mano fin dal 1504 all'Orlando Furioso.
Un bel giorno, circa due o tre anni dopo, decise di leggere alcuni passi del poema non ancora finito al suo signore, il cardinale Ippolito d'Este, fratello del duca di Ferrara, Alfonso II.

Il figlio del duca Ercole I e di Eleonora d'Aragona era assai portato per le armi, arreso e costretto alla porpora per motivi politici dal padre che avrebbe sognato un Estense sul trono di Pietro, in competizione coi Medici di Firenze che avevano avuto Leone X.
Erano tempi in cui si diventava cardinale e anche papa, per ragioni molto lontane dalla fede e dalla vocazione al sacerdozio. Il papa di quel tempo, Alessandro VI, aveva avuti i suoi figli - Cesare, Giovanni e Lucrezia - da Vannozza de' Cattanei, e celebrava messa davanti ai dipinti del Pinturicchio che per le forme della Vergine Maria si era ispirato alla bellissima Giulia Orsini, amante ufficiale del pontefice. E le Corti d'Europa gareggiavano a imparentarsi con i figli del papa.
Dunque il poco mistico cardinale, dopo aver ascoltato in una delle sale del Castello Estense alcuni episodi dell'Orlando Furioso, eccolo uscire con un'incredibile domanda: «Messer Lodovico, dove siete andato a trovare tante coglionerie?»
Al cardinale garbava più del Lodovico poeta, il segretario particolare, che doveva sfilargli gli stivali la notte, prepararlo a coricarsi togliendogli la casacca, scrivergli le lettere. Ma la brutalità della domanda ha una sua orrenda provvidenzialità. Perché il cardinale si scopre come tutti gli uomini che reagiscono con risentimento difensivo davanti all'arte, per tanti basti l'esempio del disagio di Camillo Benso di Cavour che reagiva malissimo davanti alla musica, 'troppo difficle' per lui. Da dove viene tutta quella massa di parole, quella selva di episodi ? Dove si trovano la fucina, il buco, l'antro da cui escono ?

Ma ne emerse, almeno per me, una lezione di vita, che vorrei riproporre soprattutto ai giovani se nutrono una certa passione per la scrittura. Come l'incallita aridità del cardinale ferrarese, la grossolana sordità dell'ambiente in cui viviamo, può essere uno straordinario contributo a difendere e a far crescere una vocazione letteraria, una passione esclusiva per la scrittura. L'Ariosto continuò a scrivere e compì il suo capolavoro, non scoraggiato da quella reazione, che non saprei definire se più stolta o impaurita.
Una dichiarazione di fede può nascere solo davanti a una persecuzione autentica, di fronte a un abbassamento scoperto della tensione morale di un'esistenza. Diffidiamo di un ambiente troppo favorevole e incline ad accogliere le nostre primarie ossessioni.
La pianta verrà su male, troppo innaffiata e concimata per ritagliarsi da sola la via verso il cielo, e alzarsi ben ritta su se stessa. Una sorte analoga toccò a Recanati a un altro grande poeta, secoli dopo. Nonostante tutte le lamentele di Leopardi, senza la sordità, l'ostilità, il provincialismo di Recanati non sarebbe sorta la sua modernità, la straordinaria consonanza della sua poesia con le voci più alte di quella europea.
Ecco perché ho voluto scegliere un episodio in controtendenza col mito delle Corti, che sono nidi dorati all'esterno, ma celano al loro interno la stessa sostanza umana di qualsiasi altro luogo. Dove l'uomo è quasi sempre colui che sa riconoscere i Grandi soltanto da morti.
[Questo articolo è una trascrizione riveduta dell'intervento dell'autore al convegno 'L'Europa delle Corti', organizzato dal Premio Grinzane Cavour presso l'Istituto Italiano di Cultura di Parigi, il 24 e 25 novembre 2005.
La poesia di Roberto Pazzi citata nel testo è 'I nomi', dalla silloge Talismani, pubblicata da Marietti]