L'incidente

Scritto da  Roberto Pazzi

Roberto Pazzi bambino, all'angolo fra via Romei e vicolo del Gambero.Dieci anni vissuti nel palazzo di Corso Giovecca, nel ricordo di uno scrittore.

Roberto Pazzi, figlio di Gualtiero Pazzi, per molti anni funzionario della Cassa di Risparmio, è vissuto con la sua famiglia, dal 1946 al 1957, i primi undici anni della sua vita, all'ultimo piano del grande palazzo della Cassa di Risparmio che, dal 1911, fa bella mostra di sé nel corso della Giovecca, accanto a quelli più antichi della nobiltà ferrarese. Pazzi abitava nell'ala verso via Romei, in un appartamento soprastante quello del direttore generale che allora vi alloggiava, a cui si accedeva da vicolo del Gambero.
In occasione dell'anniversario della Fondazione della Cassa di Risparmio, lo scrittore ferrarese offre volentieri alla rivista un inedito - da un'autobiografia dell'infanzia - ambientato proprio in quelle stanze, oggi diventate uffici. La Ferrara rappresentata è quella del quartiere intorno alla Cassa di Risparmio, nei primi anni Cinquanta.


Il cognome assai breve del bambino nella città di pianura subiva curiosi processi fonetici e associativi. Invece di pronunciarlo con la sua accesa sonorità di doppia zeta, gli abitanti della città di pianura lo spegnevano con una debole zeta blesa che infiacchiva la sua meravigliosa associazione della follia, restituendo in cambio solo il debole e molesto ronzio della zanzara di palude.

Meno fastidiosa era un'altra assimilazione: spesso in città doveva rispondere a domande sulla sua possibile parentela con la più antica casa di pompe funebri omonima. Non si risentiva perché si trovava a suo agio col pensiero della morte grazie a sua madre che si era ben presto preoccupata di mostrargliene la presenza nella famiglia: i genitori di lei, due fratelli, una cognata, tutti mancati in giovane età.
Tuttavia, se anche i morti erano nei discorsi di famiglia ogni giorno, erano pur sempre morti. E alla fantasia del bambino mancava l'alimento di un particolare fisico, di un numero delle scarpe, di un modo di camminare, di un tono di voce, per godere di quelle presenze impalpabili.

La madre, che aveva abbracciato quei corpi vivi, poteva nutrirsi di quelle fantasie alimentandole con la sua fedele memoria, ma il bambino? Illuminato dall'amore della madre si sforzava d'entrare in quei regni dei trapassati, ma i loro nomi non erano che echi della sua voce, ritornavano indietro senza evocare alcun fantasma. Non erano suoi quei morti, erano di sua madre, lei sì che sapeva farsi amare da loro, convivere con i vivi e i defunti.

Il bambino amava riascoltare i particolari di quelle vite che aveva già tante volte udito, come se l'esercizio servisse a rendergliene una parte, un'ombra almeno in qualche sogno. Ma non venivano da lui ed egli sentiva di essere privo della forza tragica della morte, con invidia della perfezione eroica della madre, realizzata e compiuta nella sua condizione di vera orfana per sempre. Davanti a lei sentiva la propria inferiorità, non aveva nulla per cui lo si potesse compiangere come lei.

La sede della Cassa in una stampa d'epoca.S'accorgeva di quanto fosse banale la sua vita di rassicuranti e tradizionali presenze affettive come tanti bambini e niente l'infastidiva di più di quel sorriso compiacente col quale la madre, a volte, finendo di parlargli dei suoi genitori, gli diceva: "Tu, almeno, la mamma ce l'hai ..."

Chi mai avrebbe potuto prenderlo sul serio un bambino che non aveva patito dei lutti? Chi considerarlo degno di attenzione? Così non gli spiacque l'eco della morte nel suo cognome. Un giorno avrebbe ottenuto dalle sue protettrici, le Parole, di visitarne i regni. Il suo bel cognome, sciupato sulle labbra dei suoi concittadini, stava là, sul portone di casa, nel palazzo della banca più antica della città, nel vicolo del Gambero, accanto al bottone rosso del campanello, muto e veloce nell'agilità delle sue poche lettere ed attendeva sempre il riconoscimento della sua verità fonetica da chi veniva da lontano. Solo agli stranieri sapeva donare la sua musica.

Spesso al ritorno da scuola il bambino, osservando il proprio cognome sulla porta della banca, ricordava lo stupore con cui in visita dal direttore, nell'appartamento al piano sottostante, aveva guardato il soffitto oltre il quale si svolgeva la sua vita. Il riflesso dell'intreccio di suoni che materializzava per tutti i passanti l'esistenza della sua famiglia, era lì, consegnato alle cinque lettere a stampatello sul campanello del portone. Ogni giorno, come una nave rientra nel suo porto di partenza, infallibilmente, con qualsiasi tempo e stagione, i passi del bambino da scuola si dirigono lì. Nonostante il mondo fosse tanto vasto tutto si riduceva a poche strade sempre le stesse. Per lui, che era un bambino, come per suo padre, che era un grande.

'era un mistero nell'accumulo di tutti quegli anni, mesi, giorni di azioni ripetute e identiche, un senso che sfuggiva; guardando le lastre di granito sul marciapiedi di vicolo del Gambero, che orlava un lato della banca, il bambino si era costruito tutto un suo modo di camminare evitando le lastre spezzate, calcando solo le intere, con un gioco di riscontri fra sé e le cose che alludeva a un segreto accordo. A quel modo infilava anche le chiavi nelle porte di casa sua, cercando d'indovinare alla prima, alla seconda, alla terza ed ultima prova d'appello la chiave giusta. Sforzate da questa ritualità numerologica le cose, le catene dei marciapiedi e dei giorni, il reticolo sempre identico delle vie, chissà forse un giorno si sarebbero all'improvviso aperti e la vera vita sarebbe apparsa nuda, libera, originaria.

Perché era sempre più evidente che era stato assunto qualche grave impegno per suo conto, senza consultarlo, molto prima che venisse al mondo per essere prigioniero. La prova era stata assegnata a sua insaputa e lui si trovava a sostenerla senza sapere la ragione della sua colpa. Le cose però la conoscevano e pareva che, pur costrette all'omertà, talora mostrassero un punto della loro rete che non teneva, una disfunzione del loro sistema di accordo.

La parete di legno della sala consiliare.Un giorno avrebbero parlato, ma occorreva aiutarle ad affrettarsi a liberarsi da quell'impegno evocando i numeri che componevano il segreto della loro armonia. Il progetto fondamentale delle cose e delle esistenze era stato nelle mani di un misterioso architetto che aveva distrutto i piani e mandato a memoria le leggi della sua grande costruzione. Ma la combinazione aveva una sua precisa ed assoluta formula e non ci si doveva stancare di cercarla. Questa verità era nota a tutto il cosmo e dava la forza a ogni animale, a ogni forma vivente e inanimata, di ripetersi e ripetersi, finché uno avesse liberato tutti, scoprendo il numero.

Nessuna parte della giornata pareva così vicina a rivelare la verità, la noia e la fatica, come quell'ora fra le tredici e le quattordici in cui il bambino ritornava a casa da scuola. Incontrava lungo la via le vetrine dell'Invicta, la bottega del barbiere Marcello, le vetrine della Ca' d'Este, della libreria Taddei, del calzolaio Martelli, del fioraio Lupi, la statua di San Carlo sulla facciata della chiesa, il semaforo tricolore, presenze stanche e senza tempo, rassegnate a lasciarsi guardare senza più essere notate. E talvolta anche le lastre piccole e quelle grandi del suo marciapiedi, tramortite dalle infinite camminate, non si distinguevano, non si mostravano più.

Dovette essere proprio durante uno di tali momenti in cui il cosmo cittadino sembrava vicino a irrigidirsi nel rifiuto a consentire un altro giro del sole che, attraversando la via Bersaglieri del Po, qualcosa finalmente accadde. Si sentì atterrare lungo disteso su quell'asfalto anonimo divenuto ad un tratto tanto intimo, e gravare sulla schiena un peso mobile e rotondo, la ruota d'un motorino. Più del dolore allo stomaco lo colpì l'anticipazione cosciente del dolore fisico, gli parve di allarmare tutte le parti del suo corpo: "ora starete tanto male, state pronte, gambe, braccia, mani, testa ..."

La cosa calda che correva sulla pelle e sporcava il cappotto, sotto il mento, era di qualcuno che non riusciva più ad appartenere alle proprie cose e faceva confusione, come se sbagliasse nell'attribuirne la proprietà ad altri che non potevano accettare.

L'antisala consiliare del palazzo di Corso Giovecca, sede della Cassa, in una foto d'epoca.Baldrati, il fornaio, doveva rimanere là, dietro il suo bancone, davanti alle "coppie" di pane all'olio, non venire a rialzare lui e asciugargli il mento sporco di sangue. Suo era il pane, non il sangue, suo era il bancone, non il mento del bambino. E suo figlio, tanto ostile quando si trovavano insieme, a catechismo, dal parroco, ora perché gli rivolgeva quegli occhi pietosi? Sua era la faccia del discolo che gli aveva sempre mostrato poca simpatia, non quella così compassionevole.

In quel grave stato di commozione del suo piccolo cosmo, fu riportato a casa, accompagnato da un giovane, che non era l'investitore, fuggito subito dopo l'incidente. Nel palazzo della banca il campanello del portone pareva suonare per la prima volta. Le lastre del marciapiedi del vicolo del Gambero, mostrarono la trama del loro accordo numerologico come se le vedesse da un occhio aereo. Gli scalini vennero contati sulla paura e sulla colpa. Il grido della madre, da in cima alle scale, parve finalmente giungere dalla morte anche per lui, il paese dove egli si era affacciato, ammesso dal favore d'una distratta divinità, una delle parole che quel giorno si era dimenticata di dotarlo della sua invulnerabilità.

La felicità e il terrore nelle braccia della mamma gli rievocarono il pianto per la morte del nonno, quel bel pianto che l'aveva fatto sentire così buono e amato. Si sentì più vicino a quelli che lei amava, suo padre, sua madre, i suoi due fratelli, meno escluso dalla sua perfezione tragica. Avrebbe potuto morire ed entrare nel cielo degli eroi della madre.