Idrovie naturali oppure predisposte dall'uomo o bacini lagunari ora scomparsi hanno sempre assolto al compito di garantire contatti, movimenti e commerci: il ritrovamento di antiche imbarcazioni (e il delta ne ha restituite umerose) va annoverato tra le testimonianze primarie sia della diversa morfologia che aveva un tempo il paesaggio deltizio sia delle direttrici di traffico che lo solcavano.
La nave di Valle Ponti misura poco più di 20 metri di lunghezza ed è larga 5 metri e 70. Ha il fondo largo e piatto con chiglia appena evidente e, per la tecnica con cui venne costruito il guscio, in legno di olmo, bene s'inserisce nel novero degli scafi "cuciti".
La sutilis navis di Valle Ponti è, infatti, il frutto di una tradizione assai antica, che ha nella nave di Cheope (2600 a.C.) il più remoto precedente e in Omero il più antico cantore.
Varrone, citato da Aulo Gellio (XVII, 3,4) e Plinio (N.H., XXIV, 65) ravvisano infatti in un passo di Omero la menzione di navi cucite, là dove (Iliade, II,135) si accenna al triste stato delle navi della flotta achea il cui legno imputridisce e i cui cordami cedono. Se grazie a questa testimonianza indiretta si ritiene che quel tipo particolare di costruzione navale fosse noto nell'Egeo nell'VIII sec. a.C., le scoperte effettuate in diversi punti del Mediterraneo (Spagna, coste francesi, siciliane, coste adriatiche orientali) consentono di datarlo al periodo compreso tra VII e III sec. a.C.
La costruzione "a cucitura" entrò, naturalmente, anche nel mondo romano, attardandovisi sino al IV-VI sec. d.C., con testimonianze che, allo stato delle conoscenze, si concentrano, in virtù forse di un certo conservatorismo, nell'arco dell'alto Adriatico. La più nota nave cucita (cumba sutilis) di età romana è forse il battello a fondo piatto che Caronte conduce sulle acque paludose dello Stige: sui lunghi banchi siedono gruppi di anime, ma è il peso corporeo di Enea che lo fa scricchiolare e oscillare pericolosamente (Virgilio, Eneide, VI, 413,414 ).
Nell'imbarcazione di Comacchio, dove è ben conservata la ruota di poppa, il pagliolato (legno di olmo, quercia e noce) poggia su 32 madieri (in prevalenza legno di quercia), legati al guscio da cordicelle di sparto. Appositi intagli nella loro parte inferiore impedivano che comprimessero i cordoli di libro di tiglio coperti da tessuto di lana impeciato che, fermati da cordicelle in corrispondenza della giuntura interna delle tavole del fasciame, assicuravano all'opera viva una tenuta stagna. A partire dalla linea di galleggiamento, ovvero nell'opera morta, il fasciame era invece assemblato con caviglie.
La spessa concrezione che avvolge l'ancora di ferro, dotata di un ceppo mobile, ne lascia intravedere la forma, sottile e assai allungata, con marre ben aperte ed elegantemente incurvate. Altri dati (la chiglia piatta, i dormienti inchiodati sugli staminali nella porzione conservata della fiancata, l'interruzione del pagliolato, gli alloggiamenti per i montanti di sostegno di un ponte, la cavità per il piede dell'albero mobile, parte della chiusura di un boccaporto, laterizi del tettuccio della cambusa, eccetera) consentono di apprezzare la sapiente tecnica costruttiva dello scafo, che bilanciava capacità e qualità nautiche muovendosi preferibilmente in acque interne.
Uno degli aspetti più interessanti del ritrovamento consiste nel carico che la nave trasportava.
Dalla diversificata natura degli oggetti ritrovati e dal loro numero emerge un vivido quadro della capillarità dei traffici che immettevano sui circuiti commerciali padani merci e materiali della più varia provenienza.
Pur nella confusione che ne contraddistingueva la giacitura, confusione da addebitarsi forse alle tremende sollecitazioni a cui lo scafo fu sottoposto negli ultimi, drammatici momenti del suo viaggio, alcuni degli oggetti serbavano un qualche rapporto con lo spazio che in origine era stato loro destinato.
Se ne ricavano, quindi, suggerimenti utili a ricostruire idealmente, seppur nelle linee generali, ciò che poteva essere la ripartizione originaria delle merci nella stiva e la destinazione funzionale di determinati settori condivisi tra uomini e cose. Vasellame, anfore, recipienti e oggetti di bronzo, manufatti di legno, arnesi di carpenteria, sporte, cesti, cordami, cime e stuoie si sovrapponevano prevalentemente a poppa e lungo il camminamento trasversale compreso tra il 17° e il 18° madiere.
Vi sono indizi per collocare a poppa una cambusa, poiché consistente vi era lo strato di cenere e vi si trovavano una graticola, stoviglie con tracce d'uso, una lucerna, attingitoi, una olla di bronzo e, soprattutto, resti di un piano di mattoni anneriti dal fuoco e frammenti delle tegole e dei coppi di un tetto. Numerose, anche qui, le anfore.
Diversa la situazione nella zona di prua, dove uno strato superficiale di minuti frammenti di vasi e di anfore giungeva a lambire l'ancora e il ceppo, disposti rispettivamente tra il 26° e il 30° madiere e tra il 21° e il 22° madiere. Tale manto di frammenti, tuttavia, aveva salvaguardato l'integrità di altri manufatti, per taluni aspetti singolari: pissidi, un mortaio e scatoline di legno, strigili, aryballoi, una coppia di piatti di bronzo e una coppia di vassoi in argilla, una casseruola di bronzo ancora racchiusa nel suo astuccio di legno, attingitoi, calamai, cestini di vimini (uno pieno di ami), altre lucerne, una stadera, una lanterna e altro ancora, quasi che proprio in quel settore dell'imbarcazione si concentrasse la vita dei passeggeri. Al loro bagaglio appartenevano molti degli oggetti or ora ricordati, nonché le calzature e gli indumenti di cuoio, le borse e i contenitori in pellame, i giochi con cui trascorrere il tempo, le armi, destinate evidentemente ad affrontare situazioni di emergenza.
Oggetto di consumo a bordo erano le provviste di carne salata o affumicata, testimoniate da resti di pecora e di maiale; sia che si trattasse di pesce, sia che si trattasse di molluschi (ne sono stati ritrovati racchiusi in una reticella), il mare forniva altre forme di sostentamento. Se, infatti, a bordo l'acqua veniva distribuita dal capitano che ne curava il razionamento e l'approvvigionamento, il passeggero s'imbarcava portando con sé cibo e provviste, che rinnovava durante gli scali o s'ingegnava a procacciarsi, provvedendo inoltre personalmente a un pasto caldo poiché la "cucina" di bordo era utilizzata dal capitano e da qualche suo ospite. Era l'armatore ad autorizzare il capitano a prendere a bordo passeggeri paganti, e che il viaggio fosse più o meno confortevole dipendeva dal loro rango e dal tipo della nave. Nel nostro caso, si è ben lontani dalle grandi navi d'età ellenistica o imperiale che, secondo le fonti, trasportavano, oltre che merci, centinaia di passeggeri e che erano dotate di più ponti, di vaste cabine, di dormitori o, comunque, di spazi dei quali equipaggio e passeggeri potevano disporre a proprio piacimento.
Nel carico, un rilievo determinante hanno i lingotti di piombo e il vasellame fine da mensa: sono contraddistinti da marchi di produzione, quindi databili con buona approssimazione.
Il costo del piombo, nel mondo romano, non era elevato: era, infatti, abbondante e facilmente estraibile. Una libra di piombo si acquistava con 7 denarii (Plinio, N.H., XXXIV, 16). Malleabile e relativamente inossidabile, era largamente richiesto. Raro nella gioielleria, arte o artigianato, o nella monetazione, escluso - per le sue caratteristiche - dalla forgiatura di armi o strumenti e semmai utilizzato per abbassare il tenore delle monete d'oro e d'argento e nelle leghe (il bronzo, in particolare), era viceversa usato come colorante e come medicamento. Soprattutto, se ne ricavavano tesserae, tabellae defixionum, fruste (plumba o plumbata), ghiande missili, fistulae, grappe per l'edilizia, pesi, timbri, tabelle, lampade, ami, urne cinerarie e sarcofagi, lamine per ricoprire tetti e rivestire navi.
Sulla nave di Comacchio, i 102 lingotti erano sparpagliati nel settore centrale della stiva e verso poppa. Hanno forma tronco piramidale (con cartiglio, taluni, sulla faccia superiore) oppure schiacciata. Il loro peso equivale a 2773 chilogrammi, essendo il peso di ciascun lingotto oscillante tra i 19 e i 41 kg. Connesso alle procedure della loro pesatura e vendita è un peso di calcare di circa 32 chilogrammi (corrispondente a poco più di 99 librae) il quale reca inciso sulla faccia superiore, munita in origine di una maniglia di ferro, il nome T. RUFI. Dai marchi (AGRIP; L.CAE. BAT.; C. MATI.; MAT; GEM; MAC) e dai punzoni impressi su ciascun lingotto, si può ricavare che essi provenivano dalle miniere iberiche, probabilmente del distretto di Badajoz.
Accanto ai nomi di Agrippa e di altri due personaggi (L. Caesius Batius o Battius o Baticus e C. Matius), il primo dei quali forse ricoprì la carica di procurator metallorum, figurano, infatti, le contromarche di tre legioni, la X gemina o gemella, la IIII macedonica, la prima (?), distaccamenti delle quali sarebbero stati impiegati per l'estrazione e la lavorazione del metallo.
Agrippa fu in Hispania nel 19 a.C. per reprimere le guerre cantabriche e morì nel 12 a.C. Il destino della nave di Valle Ponti fu quindi segnato in quei pochi anni, poiché il piombo marcato a nome di Agrippa non devette rimanere in circolazione a lungo dopo la scomparsa del potente personaggio.
Al medesimo lasso di tempo risale, d'altra parte, l'insieme di vasi che, sulla base delle peculiari forme e dei marchi dei fabbricanti, appartiene alla manifattura nord italica. I bicchieri e le coppe ottenute a matrice provengono da atelier i cui prodotti godettero di larga fama e i cui caposcuola (L. Sarius L. l. Surus e Aco) seppero interpretare il gusto del momento con eleganza e fantasia. Numerosi sono anche i bicchieri usciti dalle mani dei vasai che gravitarono nell'orbita di Aco, come attestano i nomi di C. Aco C. l. Aescinus, di C. Aco C. l. Diophanes, di Hilarus Gavi s., e le coppe che imitarono il più tipico e fortunato vaso di Sarius, ovvero la tazza dall'alto bordo ricurvo.
Colpisce la varietà della terra sigillata norditalica presente nel carico; a essa si accompagnano alcuni vasi a pareti sottili e a vernice nera e ben più numerosi vasi di produzione orientale, anch'essi ricoperti da quella lucente vernice di colore rosso che contraddistingueva le stoviglie più raffinate. Non meno disparate sono le restanti categorie di recipienti di terracotta, destinati prevalentemente alla cottura, a fronte dei quali più limitato - poiché di uso personale e quindi escluso dal carico commerciabile - appare l'insieme dei bronzi (alcuni piatti, una teglia, casseruole, attingitoi). Ma destinate al commercio erano altre merci, rare o pregiate. Se si considera quanto, del mondo antico, è andato perduto e di come sia labile e incerta la documentazione che a noi è giunta della devozione popolare, non è forse ingiustificato definire raro il gruppo dei sei tempietti. Essi sono degli ex voto e non possono non richiamare alla mente il racconto di Paolo (Atti, 19, 23-40), che nel 57 d.C., a Efeso, suscitò una sollevazione popolare capeggiata abilmente da un certo Demetrio, la cui fortunata attività (fabbricava templi d'Artemide in argento) era messa in pericolo dalla predicazione dell'apostolo, rivolta ai pagani.
I tempietti, composti da sottili lamine metalliche (stagno e piombo) ottenute a stampo, sono decorati in ogni loro parte e racchiudono all'interno della cella, dotata di una porta con battenti mobili, le figurette di Venere e di Mercurio. È possibile ipotizzare che chi realizzò questi naiskoi si sia ispirato a edifici o luoghi o statue di culto; alcune fonti, per esempio il già ricordato passo di Paolo apostolo, attestano, infatti, che una simile produzione artigianale prosperava all'ombra dei grandi santuari, riproducendone i simulacri. A seconda delle dimensioni, la funzione delle immagini divine era varia: quelle minuscole potevano essere appese al collo o portate sotto gli abiti, altre, di media dimensione, potevano costituire larari domestici fissi o "da viaggio" per uso individuale oppure di gruppo, altre ancora erano esibite sopra le vesti in determinate occasioni. Chi le possedeva assolveva a esigenze personali; chi le commerciava, affrontando anche lunghi viaggi, contribuiva a diffondere in terre talora lontane dai luoghi originari determinati culti.
La nave trasportava anche tre cataste di bosso, per un totale di 32 tronchetti di lunghezza regolare (tra i 155 e 160 centimetri) e di diametro medio di 17 centimetri: un legno pesante, omogeneo e compatto, facilmente lavorabile, di notevole durata e assai ricercato. Plinio ( N.H., XVI, 28 ) ne sottolinea le caratteristiche e descrive diverse varietà, tra cui primeggiavano il bosso di Gallia e di Corsica.
Non sappiamo da dove provenga quello ritrovato sulla nave; viceversa, sappiamo che era stato ricavato da tronchi potati e lasciati crescere per centinaia di anni, come indica il loro numero di anelli di accrescimento. Pronti per rispondere alle richieste del mercato erano anche il vino e l'olio, trasportati in anfore sia di manifattura egeo orientale (per esempio, le isole di Kos e di Chios, Cnido sulle coste microasiatiche) sia italica. A quest'ultimo gruppo appartengono le cosiddette anfore Lamboglia 2 e Dressel 6 A, simili per forma. Le anfore Lamboglia 2 si diffusero per circa un secolo, dalla fine del II alla fine del I sec. a.C., lungo le coste medio adriatiche e dalmate, nonché nella Cisalpina, provenendo da almeno cinque centri, dislocati fra il Piceno e il Friuli. Le anfore Dressel 6 A si sostituirono alle precedenti nell'ultimo trentennio del I sec. a.C., avendo i centri produttivi nella medesima area geografica (Aquileia, il Veneto, l'Emilia Romagna, il Piceno). Contenevano olio, vino, frutta o garum.
Meno voluminose e pesanti erano le anfore vinarie: da Kos venivano quelle contraddistinte da brevi iscrizioni sovradipinte sulla spalla (per esempio, di Charidemos, vino vecchio), da Chios quelle slanciate con anse a cordone, da Cnidos quelle con un puntale a bottone, da altre località del Mediterraneo orientale quelle monoansate di minore capacità.
Da dove la nave di Valle Ponti provenisse e dove fosse diretta non sappiamo: che avesse imbarcato le merci nel porto di Ravenna e che la sua meta fosse all'interno della Valle padana è mera ipotesi. Se così fosse, si accingeva a risalire il delta attraverso quella capillare rete di vie d'acqua di cui parlano le fonti: Polibio ( II,16,10 ), il quale accenna alla navigabilità del Po dalla bocca di Volano per 2000 stadi, fino all'incirca al Tanaro; Strabone ( V, I,11 ), il quale riferisce che da Piacenza a Ravenna si impiegavano due giorni e due notti di navigazione; Plinio ( N.H., III, 17, 123 ), il quale attesta che il Po era navigabile a partire da Augusta Taurinorum.
Perché il naufragio? Perché il carico fu abbandonato? Il punto in cui la nave è stata ritrovata era prossimo alla costa e a una foce fluviale. Era ormeggiata lungo un fiume quando venne trascinata via da una piena? Fu sorpresa da una tempesta sottocosta e divenne ingovernabile? Certo, dovette scomparire rapidamente alla vista in un basso fondale, trascinata sotto una coltre di sabbia dal peso del carico e dal movimento delle onde.